Il nostro amico Paolo ci propone un articolo veramente interessante sui poeti improvvisatori sardi, pubblicato dalla rivista mensile La Lettura nell’ottobre del 1909.
In Sardegna non vi sono tradizioni teatrali. Il suo popolo è stato sempre amante della musica, del canto e della danza, ma è rimasto fedele a quelle tre arti senza che esse, con il volgere de’ secoli, abbiano potuto piegarsi al lento processo estetico che le ha totalmente trasformate in molti altri paesi, fino ad imprimere loro il segno definitivo della rappresentazione scenica. Così in tutta l’isola non si ricordano spettacoli teatrali che abbiano avuto il carattere della produzione e dell’interpretazione indigena, non potendosi parlare di un teatro sardo a proposito de’ soliti misteri sacri, la cui riproduzione poco ha dovuto discostarsi da quella delle altre regioni italiane, o per l’occasionale comparsa di un dramma o di una commedia dialettale che non possono naturalmente aver esercitato alcuna influenza sugli improvvisati attori e tanto meno sul pubblico.
Il dialetto sardo dunque non ha prodotto in alcun tempo quella fusione tra gli elementi inventivi e rappresentativi che altrove ha assunto la forma del teatro regionale, dando spesso autori ed interpreti gloriosi.
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Il carro di Tespi giungendo da lontano dovette essere sbarcato sulle spiagge dell’isola prima di percorrere le pianure e di arrampicarsi sulle montagne. Ma dal barcollante veicolo usciva un linguaggio incomprensibile, sicché il popolo, dopo di aver assistito tra stupito ed indifferente al suo passaggio, si sentiva nuovamente attratto da quei suoni e da que’ canti la cui mescolanza acquista i caratteri di un teatro primitivo, mantenuto religiosamente intatto attraverso tutte le manifestazioni del gusto contemporaneo.
Lasciamo stare la musica e la danza; la prima, ove non sia derivata, si esprime con rozzi suoni pastorali, ma contiene tuttavia un’armonia propria e suggestiva, e meriterebbe uno studio a parte; e la seconda ha conservato i suoi caratteri orientali, vuoi che si svolga nel lento e cadenzato ballo tondo, a lungo cerchio di danzatori e di danzatrici, o che si restringa in un gruppo serrato, che batte il piede con veemenza sul terreno!, non discostandosi da un punto fisso, mentre il suono delle launeddas (specie di zampogne) segna il ritmo.
Ma musica e danza in Sardegna non si possono considerare ormai che come un commento, oserei dire come uno scenario di quel teatro ideale dei sardi attualmente costituito dalle gare di poesia che si succedono, ad ogni festa, ne’ numerosi villaggi dell’isola ed anche in qualche grossa città.
In poche regioni d’Italia io credo che il sentimento della poesia sia sviluppato come in Sardegna, e s’intende, parlando di sentimento, non voglio affatto accennare all’arte, prevedendo subito l’obiezione che mi si può fare, e che cioè la Sardegna non ha mai dato alcun vero grande poeta.
Ma il sentimento della poesia – sentimento e arte, ripeto – è diffuso nel popolo sardo, e un istinto misterioso che lo guida verso la bellezza, e lo fa prorompere in un linguaggio che sa tutte le armonie del verso, fondendo il tipico dialetto in strofe ricche di forza e di grazia.
Chi sono dunque questi poeti della Sardegna? o pastori vaganti e solitari, che inventano e modulano i loro canti conducendo le gregge al pascolo, sono contadini i quali nelle aie, nelle vigne, negli uliveti, durante i riposi all’ombra, o nelle lunghe notti d’inverno, disputano in poesia provocando dei veri certami poetici, e sono perfino degli artigiani e de’ piccoli professionisti che leggono il giornale e traggono dagli avvenimenti del giorno le loro ispirazioni. Ma nessuno di essi scrive e tanto meno medita il proprio parto poetico. Tutti invece si abbandonano alla più schietta, alla più rapida estemporaneità, fino ad acquistare quella fama che godono di famosi improvvisatori presso il popolo.
L’improvvisazione regna sovrana nella poesia dialettale della Sardegna, e se per il suo carattere estemporaneo, che si produce al di fuori dei dettami dell’arte e dell’estetica, non riesce ad occupare una pagina duratura nella storia letteraria dell’Isola, non si creda per questo che i suoi campioni e le loro produzioni poetiche vadano dimenticati con il volgere degli anni.
Tutti i paesi del Lugodoro – che è la regione dove è maggiormente sviluppato il sentimento della poesia – si vantano di una tradizione poetica, e morto o scomparso un poeta ne hanno subito incoronato un altro. E non è detto che lo spirito di campanile abbia fatto ritenere agli abitanti di ciascun Comune di possedere il miglior poeta, in dispregio degli altri. No, ogni comune si è accontentato e si accontenta di avere dato i natali ad un poeta, ma riconosce facilmente la superiorità e la fama di quegli improvvisatori che, al pari degli antichi bardi, hanno saputo acquistare molte corone, fuori delle mure del paesello natìo, ed hanno sparso ovunque le loro strofe, che si ripetono ancora di villaggio in villaggio.
Per essi è sorta e si è mantenuta in Sardegna la tenzone poetica, curiosa sfida, che tanto appassiona tutti gli isolani, ed acquista, come vedremo, i caratteri di un vero teatro primitivo, all’aria aperta.
II
Queste gare poetiche non hanno certo un’origine storica o letteraria, e tutto al più possono anche oggi rassomigliarsi a quell’insierne di suoni e di canti che nell’antica Grecia segnarono i primi albori del teatro.
Udendo un gruppo di improvvisatosi sardi a poetare, con una specie di canto fermo, il quale, alla sua vola, in ogni strofa, è sottolineato da un breve accompagnamento di altri cantori, si è tratti a pensare, per quanto confusamente, al rito dionisiaco, e all’impeto bacchico da cui sorsero le prime effigie teatrali della civiltà.
Soltanto che le disputas, che nel buio notturno o al lume della luna i poeti di Sardegna teneano un tempo nelle sagre campestri, si sono ora disciplinate, fino a diventare un vero e proprio spettacolo che rivaleggia con gli altri divertimenti della festa, quali le corse dei cavalli, i fuochi d’artifizio, il ballo tondo, etc., etc.
Ed il popolo, come ho già detto, si appassiona fino al delirio per i suoi poeti, e segue ammirato e commosso tutte le fasi della gara, rilevando man mano il maggior estro di ciascun cantore, ed il brio od il raziocinio con il quale esso attacca o si difende.
Perchè uno de’ maggiori pregi che distinguono la vena de’ poeti sardi è non solo la facilità dell’improvvisazione, ma la logica stringente con cui viene ribattuto ogni argomento dell’avversario.
E le botte e le risposte, si possono prolungare, per alcune ore, senza che i due rivali accennino mai a stancarsi.
Non occorre neppure lo stimolo della gara, sotto gli occhi del pubblico, ad incitare l’estro dei poeti; alcuni di essi parlano realmente ed operano quasi sempre in poesia.
Spesso avviene che incontrandosi per le vie del paese o in campagna, si salutano in versi. E allora restano fermi per lungo tempo poetando sugli avvenimenti del giorno, e richiamando un numeroso uditorio.
Una volta un poeta trovò in campagna un suo amico, anche questi spontaneo improvvisatore, che seminava del grano, malgrado la stagione fosse assai inoltrata. Si era infatti nel marzo.
Scherzoso il poeta, vedendo l’amico intento alla seminagione, sentenziò:
«Laore ‘ettadu in martu
no lu messas tantu artu!»
(Grano seminato in marzo,
non lo falcerai molto alto).
E l’altro pronto:
«No importat sa canna
Si no s’ispiga manna»
(Non importa l’altezza
se la spiga è matura).
E il primo:
«Ite ‘alet s’ispiga
Si no est ingranida»
(A che vale la spiga
se non è ricolma?)
E i due continuarono per un bel pezzo svolgendo in versi tutta la loro pratica sulla seminagione e sul raccolto de’ cereali!
Il professor Pietro Nurra, in un suo pregevole studio sulla Poésia popolare in Sardegna, rammenta il vecchio improvvisatore di Sennori, Loriga, un contadino, il quale avendolo invitato nella sua casetta, si rivolse alla moglie, parlandole in versi, e la buona donna, continuando ad accudire alle faccende domestiche, rispose subito, altre rime, per salutare l’ospite.
Loriga raccontò che anche sua moglie era poetessa valente e i sennoresi ricordavano i contrasti che avvenivano fra essi quando non si erano ancora sposati. Lavoravano in due campi vicini, e li, di pieno giorno, si narravano in ottave le loro gioie, i loro affetti, e qualche volta bisticciavano, ma sempre in versi!
Tuttavia la poesia estemporanea di Sardegna è anche tinta di sanguigno. Qualche poeta che aveva tramutato la sua satira in libello, prendendo di mira or l’una or l’altra famiglia, fu trovato ucciso misteriosamente, ed il più celebre degli improvvisatosi isolani, Melchiorre Murenu, cieco fino dalla nascita, fu precipitato in un burrone, ove morì. Si dice che autori del delitto siano stati alcuni abitanti di Bosa, piccola città contro la quale il Murenu aveva sempre affilato i velenosi strali.
III
Ma ritorniamo alle gare poetiche, e vediamo un po’ come esse si svolgano, e quali fiori diano di olezzante poesia dialettale.
Veramente fino ad alcuni anni or sono erano state sempre libere.
Gli stessi poeti, partecipando alle feste de’ diversi paesi, si sceglievano l’argomento a loro piacere, ed intorno ad esso disputavano, cantando, fino all’alba.
Ma una volta, ad una festa d’Ozieri, si pensò che sarebbe riuscito più interessante lo svolgimento di un tema obbligatorio, e che il giudizio di una speciale commissione. col relativo premio, avrebbe maggiormente lusingato l’amor proprio dei singoli poeti. Così, da quella volta, i migliori improvvisatori sardi diventarono de’ professionisti della poesia dialettale, costituendo un nucleo di cantori, ormai indispensabile in ogni gara che si voglia bandire.
Il popolo naturalmente parteggia per l’uno o per l’altro, a seconda del genere in cui ciascun poeta si distingue, sia comico, sentimentale o drammatico; e ad ogni gara vi sono i poeti favoriti, come i cavalli, per quanto non sia ancora venuto l’uso di puntare su di essi!
Intanto, prima di bandire una singola gara, si costituisce un comitato che procura i fondì per i premi. Lo stesso comitato nomina poi i membri della giuria scegliendoli fra le persone più colte ed intelligenti del paese, e che preferibilmente abbiano avuto una certa dimestichezza con le Muse.
Qualche ora prima della gara i membri della giuria tengono una riunione e stabiliscono dieci o dodici temi e la durata delle improvvisazioni per ciascun tema.
All’ora prefissa, tutti gl’iscritti alla gara vengono fatti salire su un palco appositamente costruito, spesso all’aria aperta, oppure in un locale che funge da teatro, e subito il presidente estrae a sorte i nomi de’ due primi contendenti, a’ quali si legge uno de’ temi parimenti estratto a sorte, e che essi devono svolgere appena è annunziato al pubblico. Successivamente si estrae un’altra coppia di nomi e un nuovo tema, che viene svolto con il medesimo procedimento. E solo in ultimo, come chiusura, si assegna un tema a tre o quattro poeti contemporaneamente oppure a tutti quelli che hanno partecipato alla gara, in modo che ne deriva un contrasto a più voci ed a più pareri, di effetto straordinario.
Finalmente la giuria si riunisce di nuovo ed assegna i premi in danaro, tenendo conto oltreché dell’estro poetico di ciascun improvvisatone, anche delle speciali difficoltà che egli possa avere incontrato trattando un tema magari estraneo ai propri gusti e a’ propri convincimenti.
Si capisce che il giudizio non piace sempre ai poeti che non hanno ottenuto un premio, o si lusingavano di ottenerne uno maggiore.
In una gara d’Ozieri faceva parte della giuria, in qualità di presidente, Giuseppe Calvia, un letterato colto, che non disdegna di coltivare egli pure la musa dialettale.
Alcuni poeti delusi, con il pretesto di un invito ad un amichevole simposio, provocarono il Calvia ad una sfida poetica alla quale assistette da spettatore lo stesso vincitore della gara Antonio Cubeddu.
Il Calvia, che fin dall’età di dieci anni aveva disputato in versi con alcuni di quei poeti, cantò e si difese con bell’estro, lasciando nel pubblico la convinzione di aver dato un equo giudizio. Ecco una delle ottave cantate dal Calvia in quell’occasione:
«Puzone cheres bolare chen’alas
pero de jugher alas non presumas,
ca si las as sun privas de sas pumas
o si tenes sas pumas sunu malas.
Si pones mente a mie las allumas
de badas ti sun naschidas in palas.
Pro chi est pro tenner pumas gai
Disizo de no aer alas mai. »
(Uccello, vuoi volar senz’’ali
ma di aver ali non pretendere,
chè se le hai son prive di piume
e se hai piume esse sono inutili.
Se a me poni mente le abbruci,
invano ti son cresciute sulle spalle.
Ed io per aver simili piume
desio di non aver mai ali).
I poeti, all’inizio ed alla fine della gara, salutano ordinariamente il pubblico con una strofa speciale in cui si esaltano le bellezze del paese che li ospita, o si loda qualche precipua qualità degli abitanti.
Nel canto – perchè, come ho già detto, essi si esprimono con una specie di canto fermo, che trasforma la loro recitazione in una cantilena cadenzata – sono accompagnati da un coro, da’ tenores e i cui diversi soggetti si chiamano in dialetto contra, tippiri e basciu.
La disputa si tiene in ottave: – le modas intreccio arbitrario di versi a tema libero – sono andate sempre più in disuso, non valendo esse che a provare la facilità di memoria degli improvvisatori.
Per dare un’idea intorno al modo con il quale procede la gara, riporto le prime due strofe avverse di un tema intitolato Il fucile e l’aratro. Il poeta Cubeddu, sostenendo le ragioni dell’aratro, così incominciò a cantare:
«Appenas si est su tempus cambiadu
luego ‘ido sa zente posta in mottu
a un’a unu si movene tottu
a si chircare linna pro s’aradu,
da’ ‘ue ogn’alimentu est recavadu
dae s’aradu su pane ana cottu.
Per mesu de s’aradu trigu ‘ettana
Cun isse aran, de isse approffettana.»
(Appena la stagione è cambiata
subito veggo la gente in moto,
ad uno ad uno si muovon tutti
a procurarsi legname per l’aratro,
donde è ricavato ogni alimento.
Dall’aratro han cotto il pane.
Per mezzo dell’aratro seminano il grano,
con esso arano, di esso profittano).
Ed il poeta De-Martis, di rimando, quasi poggiandosi ad un fucile invisibile:
«‘Eo cun-d-una ‘idea pius deghile
mancari custa notte sia in errore
appoggiare mi chelzo a su fusile
prite mi chelzo fagher cazzadore,
su fusile non do a su acchile,
aprite su fusile est unu fiore
e deo cun su fusile si mi agatto
cantu mi ‘enit in bidea fatto.»
(Io con una idea più graziosa,
quantunque questa notte sia in errore
appoggiar mi voglio al fucile,
poiché voglio farmi cacciatore,
il fucile non do’ alla mandra delle vacche
perchè il fucile è il fiore,
ed io quando col fucile mi trovo
quanto mi viene in testa opero.)
Non è raro che questi umili e rozzi improvvisatori abbiano delle superbie da grandi poeti, ed esaltino la propria arte con gesto regale. Il contadino Pirastru, accingendosi a trattare il tema di una gara, diceva di sé stesso:
«Cando cantat Pirastru Deus falat
e-i s’arcu balenu lu colorit,
Isse versos divinos li regalat
sa natura sas rimas li favorit,
e-a chie cantende lu appugnalat
sutta s’ottava sua ognunu morit.
Moralmente pero salvat e sanat;
s’amigu salvat, s’inimigu isbranat»
(Quando canta Pirastru scende Iddio dall’alto
e l’arco baleno lo colorisce.
Egli gli regala divini versi,
la natura gli fa dono delle rime.
e a chi cantando gli dà pugnalate
sotto la sua ottava ognuno muore.
Ma moralmente intanto salva e guarisce,
salva l’amico, e sbrana l’inimico).
Ma è tempo, mi pare, di cogliere qualche profilo degli improvvisatori oggi più in voga in Sardegna, e di rilevare le caratteristiche della loro vita e della loro poesia.
IV
Gli improvvisatosi maggiormente celebrati nell’isola sono: Antonio Cubeddu d’Ozieri, Gavino Contini di Siligo, Giuseppe Pirastru di Ozieri, Antonio Farina di Osilo, Salvatore Testoni di Bonorva, Antonio Andrea Cucca di Sassari, e Francesco De Martis di Mores.
Essi sono ormai gli indispensabili di ogni gara, alla quale si recano in numero di cinque o sei almeno; giacchè può darsi che qualcuno si unisca qualche volta ad una comitiva di poeti più oscuri.
Cubeddu é un costruttore di muri barbari, ma ora ha smesso l’antico mestiere e vive a Sassari dove s’industria con un’osteria ad uso dei villici del contado.
Egli veste il tradizionale costume isolano ed ha un aspetto biblico, come sa realmente di biblico la sua poesia sentenziosa ed immaginosa.
Invece il Contini veste, come si dice in Sardegna, alla moda civile, ha una discreta istruzione, ed è lettore assiduo di romanzi e di giornali, nelle ore che gli lascia libere il suo mestiere d’imprenditore. Il Contini si distingue particolarmente nel genere faceto.
Il Pirastru è un piccolo proprietario, e anch’egli tiene al suo tipico costume d’orbace. È ricercatore di rime peregrine.
L’operaio Farina è pronto ed incisivo nelle sue improvvisazioni ed ha addestrato all’arte della poesia estemporanea anche la sua figliuola Maria. Questa giovinetta ha partecipato a parecchie gare ed ha anche disputato il premio con suo padre palesando una ricca ispirazione poetica.
Il biondo Testoni ha qualcosa di slavo nella sua fisionomia. Fa l’agricoltore e canta con sentimento, con dolcezza, quasi con malinconia, meglio forse di tutti gli altri rilevando i caratteri della misteriosa psiche sarda.
Il macellaio Antonio Andrea Cucca e l’agricoltore Francesco De Martis godono essi pure di bella rinomanza; il primo per la voce armoniosa con la quale canta le sue ottave, ed il secondo per la giovanile veemenza che spiega in ogni disputa di poesia.
Ho assistito ad un a gara poetica che ha avuto luogo in occasione delle feste di ferragosto al Politeama Verdi di Sassari. Per la prima volta si osava trasportare uno spettacolo gradito alle ingenue folle de’ villaggi innanzi ad un pubblico esigente e severo, che, nella sua vanità cittadina, affetta un grande disprezzo per tutte le festose manifestazioni popolari.
Eppure anche la gara di Sassari ha avuto un crescente successo: dopo la mezzanotte l’enorme uditorio del Politeama non si stancava di udire e di applaudire gli umili e forti improvvisatori, vestiti da contadini, per quanto il loro libero canto fosse esulato dal suo quadro naturale, e l’arcoscenico facesse desiderare il lontano nuraghe!
A quella gara partecipavano il Cubeddu, il Contini, il Farina, il Pirastru ed il Testoni; e in ognuno di essi dovetti ammirare o la forza, o l’arguzia, o la spontaneità.
Essi disputarono ciascun tema, a due a due, secondo le norme consuete, e tra l’altro ricordo la dialettica che spiegarono il Cubeddu ed il Pirastru nel dimostrare se sia più utile ad un moribondo il prete od il medico.
M’impressionarono anche le ottave che si svolsero da tutti i poeti intorno al tema: «Potendo cambiare posizione, che cosa vorreste diventare.?» Il Cubeddu, inspirandosi di nuovo alla sua filosofia biblica, fece l’elogio della saggezza, unica fonte di ogni umana felicità, mentre il Contini, con curioso contrasto, desiderò di essere un secondo Gorki per illustrare anche lui ì dolori della Russia, o una seconda Grazia Deledda per cantare di nuovo le bellezze della Sardegna.
E tutto questo, s’intende, in ottave rapide, spedite, che si succedevano l’una all’altra, sotto l’affrettato commento corale de’ tenores schierati dietro il gruppo de’ poeti.
Ma ciò che mi sorprese di più, ed in vero non mi attendevo, fu l’interpretazione devo proprio usare questa parola scenica di un tema a personaggi, e cioè un marito giovine, una moglie ricca e brutta, ed una serva bellissima.
Al Testoni la sorte assegnò la parte del marito, al Farina quella della moglie, ed al Contini quella della serva. Come si vede, si tratta in fondo di una commedia dell’arte, con relativa improvvisazione de’ soggetti, ma senza il valido aiuto dell’azione giacchè i poeti sardi hanno svolto anche questo terna, cantando in ottave, indossando gli abiti usuali, e rimanendo aggruppati intorno ad un antiestetico tavolo.
Ebbene, malgrado ciò, la loro mimica è stata così espressiva, ed essi hanno spiegato tanta comicità nel gioco delle botte e delle risposte, che io ho naturalmente pensato se un giorno, dal brio o dalla drammaticità di queste gare, non possano affacciarsi i primi attori del teatro dialettale sardo.
STANIS. MANCA.
Paolo da Ozieri