Per Omero, Gi-gun (Ogigia) era omphalos in quanto luogo sacro prescelto da Calipso, la dea che avvolge – occultando alla vista dei più – il locus amoenus per eccellenza: l’isola della dea dell’amore. Kalipso è infatti colei che, al pari di Afrodite, nasconde entro il suo ventre il seme della vita, garantendo fertilità e discendenza. E non è certo un caso se già il nome risuona della radice Kel (nella sua accezione di velare, tenere segreto), la stessa di Kimelio = Cimillìa (tesoro o bene nascosto), sibillina tomba del segreto iniziatico del ciclico ritorno.
Su scusorgiu di Efisia
Anche la Sardegna – come Oygigia – è patria e dimora ideale per ninfe e segreti, così ben celati da essere monopolio del mondo dell’oltretomba alle cui immortali regole soggiacciono da sempre. Nessuna deroga è concessa, neppure ai fanciulli. E così fu anche per la poco più che dodicenne Efisia quando si mise alla ricerca de su scusorgiu nei pressi della casa paterna. Erano i primi anni del ‘900 e la piccola sparadesa che non conosceva il latino né i miti greci, perpetuava inconsciamente un rituale di rinascita. Ogni notte di bessiada (“le si presentava” ndr) una donna che le indicava precisamente il luogo in cui si sarebbe dovuta recare per trovare il tesoro: absco(n)sorium l’avrebbero chiamato i latini, scrusciogiu diceva lei più familiarmente. Alla terza apparizione, la piccola Efisia decise di obbedire all’invito della misteriosa figura e si recò nel sito descrittole, da sola, come il precetto di riservatezza imponeva. Ma la paura la vinse e non rispettò l’altro dictat imposto per il ritrovamento, girandosi e guardandosi le spalle. Il tesoro scomparve e la fortuna rimase per sempre appannaggio della misteriosa figura.
Chi era quella donna misteriosa? Forse una novella Persefone che intercedette per Orfeo presso il marito Ade, offrendo una possibilità di ritorno alla vita per la sventurata Euridice? Come Efisia, Orfeo fallì ad una passo dalla meta:
“Il tracio Orfeo la riebbe, a patto che non si voltasse indietro a guardarla prima di essere uscito dalla valle infernale.” All’ultimo si voltò ed Euridice scomparve per sempre, ingoiata dall’ingordo Ade.
Janas
Quanto su scusorgiu attenda al mondo dell’oltretomba è confermato dalla stretta familiarità che lo lega con le Janas, le fate della Sardegna – per il grande linguista M.L. Wagner di etimologia comparabile a Diana – abitatrici degli antichi sepolcri protosardi. Secondo la tradizione, infatti, i malcapitati che si trovavano a passare di fronte alle loro dimore ricevano un premio commensurabile con loro bontà d’animo: ai malvagi spettava la prigionia eterna coi nani crudeli, ai meritevoli fortuna e ricchezza per tutta la vita. In altre parole la dannazione eterna o il paradiso custodivano le Janas, note abitatrici di grotte sepolcrali ricche di tesori ma comunicanti direttamente con l’inferno. E chi vi entra paga il fio di una morte violenta e prematura.
Su Pipiu de Oru
I tesori nascosti hanno animato le storie e le illusioni di generazioni di sardi. Scrigni sotterrati, pentole piene d’oro e misteriose presenze a protezione del secretum agognato quanto temuto. Il custode de su scrusciogiu era, infatti, s’aramigu, il diavolo in persona che cercava accoliti mediante visioni notturne o per mezzo di bruscias e brusciusu. Fu un mago a rivelare alla famiglia di Vincenzo che nella vecchia casa paterna, in s’apposentu ‘e lettu padronale, era sepolto uno scrusciogiu molto particolare: su pipiu de oru. La ricerca di quello straordinario tesoro che avrebbe potuto cambiare per sempre il futuro de su sangunau, impegnò diverse generazioni e vide protagonisti più esperti dell’occulto: inutilmente. Su scrusciogiu fu inghiottito dalla terra e rimase per sempre possesso del maligno.
Esegesi del mito
Presso il villaggio nuragico di Barumini, è stata ritrovata una costruzione, dotata di uno spazio rettangolare, con pavimento provvisto di pozzetti destinati al deposito di materiali votivi: vasi con resti di uccelli e roditori, con ceneri e carboni; elementi di bronzo, con probabile intento inauguratorio, come rito di fondazione del villaggio nuragico (IX-prima metà VIII sec. a. C.). A Serri, un piccolo vano del cosiddetto tempio ipetrale – un deposito di oggetti votivi connessi al culto di epoche molto diverse – ha restituito non solo vaghi d’ambra di una collana protovillanoviana, e manufatti di bronzo, argento, oro, avorio, ma anche monete dall’ampia escursione cronologica e grandi vasi di bronzo, ridotti in piccoli frammenti. Ancora a Serri, questa volta nella Capanna dell’Altarino, nei pressi del cippo-altare, una fossetta conteneva un’olletta biansata a colletto ed un tegame, sormontato da un disco calcareo e da un segmento sferico: un deposito di fondazione destinato ad essere irrorato da libagioni sacrificali, sembrerebbe l’ipotesi più credibile. Esempi come questi sarebbero moltiplicabili all’infinito e riferibili anche alle epoche successive per lo meno fino all’età bizantina. Agli scopritori moderni – cui questi reperti appaiono come testimonianze importanti del culto e del sentire religioso degli antichi abitatori dell’isola – spesso essi giunsero distrutti da predoni antichi e moderni, che devastarono gli arcaici siti in cerca di ricchezze nascoste che, perso il valore rituale, erano ambiti per la rilevanza monetaria. Ma col volgere dei secoli, smarrito il ricordo dell’originaria funzione, i casuali ritrovamenti di simili reperti archeologici in aree già ammantate di leggenda, finirono per creare un nuovo filone afferente al mistero. Da qui il mito dell’absconsorium, che fu scusorgiu o scrusciogiu a seconda delle varianti locali, in cui relitti di paganesimo e antiche credenze si fusero nella disperata ricerca di un domani migliore.
Emanuela Katia Pilloni