Sul Supramonte, nel cuore aspro del montano Gennargentu, a novembre del 1913 era già inverno. Un inverno secco con certe notti di stelle, fredde che imbiancavano di gelo i picchi della montagna.
Non c’era neppure vento, la notte del 6. Si sentiva chiaramente il bramire della volpi affamate che i fuochi dei pastori, resi più vigili e insonni dalla possibilità di un agguato, ricacciavano nelle tane. Dagli ovili della valle venivano su latrati di cani, rari scampanii di greggi a riposo intenti a scuotersi di dosso l’umidore della guazza. Nessuna voce umana in quelle vaste lande di pietra e terra arida, sotto quel ciclo impassibile, indifferente alla sua stessa bellezza: il liquido silenzio umano delle notti in Barbagia che sembra quasi ubbidire alla quiete della luna, o del buio, sa la luna non c’è.
Ma per Paska non c’erano neppure le voci degli animali, ne quella del torrente che scorreva a pochi metri dal suo rifugio. La voce muta, gelata delle persone che le stavano intorno era tutta nei loro occhi.
Supina, adagiala su una lettiga di frasche in fondo alla caverna di roccia, non avvertiva neppure il calore del fuoco acceso in un angolo. Si sentiva addosso tutto il freddo della notte. le fiamme alte che non riuscivano a scaldarla erano il rogo della sua giovinezza. Cavalcate di pensieri sconnessi e ricordi confusi andavano via-via attenuandosi nella sua mente come lo strepito di una mandria che si allontana nell’erba alta della tanca.
Quando gli occhi della giovane donna si chiusero senza che una mano pietosa ne accarezzasse le palpebre, i sei uomini vestiti da pastori che le stavano intorno la coprirono con un lenzuolo di lino candido e un pesante gabbano d’orbace. Spensero il fuoco buttandovi sopra dell’acqua. Sollevata la lettiga di frasche dal pavimento di pietra della grotta, uscirono nella notte. Il fruscio dei loro passi sulle rocce del pendio e sull’erba del fondovalle irrigidita dal gelo poteva essere anche il brucare cadenzalo delle bestie al pascolo o il battito lontano delle ali di un uccello da preda. Il passo dei banditi non muove ciottoli né urta sassi o radici iI latitante che perde il suo passo e meglio che resti nel rifugio, soprattutto la notte.
I sei uomini con la lettiga erano banditi. E anche Paska era un bandito. Camminarono per più di tre ore. dall’ombra della montagna al bianco delle case di Orgòsolo ancora lontane dall’alba.
La chiarìa delle facciate del paese sembra di notte una chiazza di latte nell’ombra cupa della conca di Sant’Ananìa. Orgòsolo, nome antico, anteriore, dicono, anche allo stesso paese, che la genie nuragica diede a quel territorio racchiuso tra le alture. Nome che richiama, a pronunciarlo, il gorgoglio dell’acqua che sgorga stretta da una fenditura della roccia, del vino bevuto dalla zucca, in piedi, la testa rovesciala all’indietro, o del sangue dall’arteria squarciata. Paese fuori dal tempo, che fa pensare alla clessidra. Vi cola lentamente, ma inflessibile, la sabbia arida dell’odio e della vendetta. Ma basta rovesciarla per avvertire il profondo fluire, allettando implacabile, dell’amicizia e dell’amore. Paese di gente che non perdona il nemico, ma che non tradisce l’amico.
Che usa parole e gesti con parsimonia e senza lusso d’inutili cortesie. Si racconta di una vecchia signora orgolese, padrona di una locanda, che per onorare un giovane poeta amico di amici, che le aveva regalato un suo libro di poesie, pranzò con loro, cosa inusuale, e alla fine del pasto prese chiodo e martello e crocifisse alla parete il libro chiuso del poeta. «Chi viene qui», gli disse, «deve sapere che tu sei stato qui e che mi hai regalalo le tue poesie; se non potranno sfogliarlo ne compreranno un’altra copia».
Arrivati in paese i sei banditi si fermarono davanti alla porta della casa di Paska. Non ci fu bisogno di bussare. I due battenti si aprirono silenziosamente. I quattro, portata dentro la giovane donna ormai fredda e pallida come il marmo, l’adagiarono su un grande tavolo, ì piedi rivolti alla porta, pronta a proseguire il suo viaggio verso l’eternità. Salutarono con un gesto della testa l’ombra oscura che si era staccata da una parete, baciarono la morta sulla fronte e uscirono in fretta.
II dovere era stato compiuto: secondo la tradizione, chi vive fuori dalla legalità e muore in latitanza dev’essere restituito alla famiglia.
Famiglie tormentate, quelle di Orgòsolo e della Barbagia di quel tempo, coinvolte in una vicenda di faide che sconvolse anche l’assetto sociale del paese e dell’intero territorio.
«Una storia di sangue», scrive Brigaglia, «illuminata da squarci di luce orgogliosamente barbarica, come la vita di Paska Devaddis (una giovinetta costretta anche lei a prendere la via della montagna, capace di cavalcare e sparare come i suoi compagni di latitanza: quando muore, di tisi e di stenti, in montagna, i suoi compagni la trasportano di notte nel paese silenzioso e la depongono nella sua casa vuota, sul tappeto più bello, vestita con il costume da sposa che non potrà più indossare; l’autopsia sul cadavere la dichiarerà vergine, e Paska diventerà un personaggio di leggenda».
Nel libro In Assise, Ricordi di vita giudiziaria in Sardegna[1] Mario Berlìnguer, avvocato di gran grido in Sardegna e difensore di molti orgolesi, racconta così l’avvenimento: «Piombarono in Sardegna», scrive, «i grandi giornalisti avidi di coloriture sensazionali, Civinini, Calza, Lucatelli, e chi inventò un’intervista con la “dura virago”, chi descrisse la “vergine amazzone” passare a cavallo con la benda gialla attorno al capo fiero, molti ne fecero una raffigurazione selvaggia e possente… e falsa. No: Paska Devaddis era una povera fanciulla gracile e malata, minala dall’etisia che non perdona; e la sua vita fra i banditi fu breve. E allora, in una notte senza stelle, i suoi compagni con un’audacia indescrivibile, essi che sapevano Orgòsolo asserragliata e gremita di truppe, ma sapevano pure che per tradizione aulica chi muore in latitanza lungi dalla sua casa è disonorato per sempre, osarono trasportare la salma della giovinetta in Orgòsolo, nella sua casa ormai chiusa e deserta perché la piccola sorellina, Carola, era stata accolta da alcuni parenti».
Quando l’alba allargò con le prime luci la luminosità dei graniti coperti di gelo, i banditi erano di nuovo nel loro rifugio sui monti e Paska era adagiata sul suo letto di fanciulla, circondata da candele accese. Si dica che la sorella, l’unica della famiglia rimasta ad attenderla, la vestì con I costume di nozze preparato da tempo. Nozze di cui si era fissata tante volte la data ma che non erano state mai celebrate perché il fidanzato Michele Manca, era in carcere accusato di omicidio.
Quella mattina del 7 novembre, fredda ma col cielo ancora limpido, i primi a visitare la casa di Paska furono i carabinieri e il medico del paese chiamati per certificare davanti alla legge la morte della giovane, vissuta alla macchia per più di un anno. Dal referto medico risulterà che Paska Devaddis era morta per tubercolosi e che aveva conservalo intatta la propria verginità.
Ma chi era Paska Devaddis dì Orgòsolo? Per il mito fu «Reina dì Orgòsoto e de bandidos sorre e sentinella. De sa disamistade in sa burraska in sa notte orgolesa fìd istella. Paska Devaddis reina e bandida». («Regina di Orgòsolo, sorella e sentinella dei banditi. Nella burrasca della faida fu la stella della notte orgolese. Pasqua Devaddis, regina e banditessa».)
«Nel 1913 in Sardegna, ad Orgòsolo», afferma il Pareto, «certi cittadini sostituiscono la loro azione a quella manchevole della giustizia. Il fatto merita di essere narrato. In quella terra contendevano per ragioni private due famiglie, cioè quella dei Cossu e quella dei Corraine. La prima seppe procacciarsi il favore del Governo, la seconda stimandosi per tal modo, oppressa, ricorse alle armi».
«Le campagne rigurgitavano di latitanti», dice Cagnetta, «uomini e donne, disposti da un momento all’altro a unirsi alla banda Succu e a darsi alla vita disperata. Si può dire che, a quel momento, esistesse una vera situazione di guerra tra una delle parti, la più povera, contro l’altra, favorita e difesa dalle autorità».
Brigaglia riporta le parole dell’avvocato nuorese Ciriaco Offeddu. vissuto al tempo della grande dìsamistade. «Il dramma di Orgòsolo non è prodotto dalla razza delinquerne, ma è una conseguenza logica, fatale, di una negata giustizia. Prendete l’uomo più equilibrato del mondo, circondatelo di tante sciagure, opprimetelo di costante ingiustizia, uccidetegli un figlio nel sonno, buttategli un padre nel pozzo, arrestategli la vecchia madre, fategli morire randagia e spettro umano una figlia per la campagna, e perderà l’equilibrio spezzando le catene con cui l’educazione e gli Studi lo avevano legato».
La disamistade di Orgòsolo inizia ufficialmente il 3 aprile del 1905, quando a Corriolu di San Vero Milis. piccolo centro del Campidano, Carmine Corraine viene ucciso per mano di Egidio Podda, e si conclude il 25 giugno del 1917, quando venne chiusa ufficialmente dallo Staio con la sentenza assolutoria del grande “processo di Orgòsolo”.
L’analisi di questa dìsamìstade, la risonanza che questi fatti sanguinosi ebbero sulle cronache dei giornali e nell’opinione pubblica, le istruttorie e i processi misero in luce il ferreo codice non scritto che regolava la vita di Orgòsolo. coinvolgendo tutto il mondo pastorale baibaricino e svelandone i misteri.
«Per la prima volta», scrive Cagnetta, appassionato “indagatore” di quel villaggio martoriato, «i fatti segreti e intimi di un paese che per il suo isolamento multimillenario può essere consideralo l’Arca Santa di tutta la storia dell’isola diventano pubblici, si fanno storia: non in termini incidentali, ma in una connessione organica, in una unità, comparivano tutti gli elementi principali che compongono il ripetersi immobile della vita in Sardegna. La celebre “vendetta del sangue” del villaggio di Sardegna avrebbe solo interesse di cronaca locale se in primo piano, con estrema evidenza, non fosse in essa comparso l’insieme dei rapporti tra l’economia, la società sarda più arretrala e Io Stato nazionale italiano moderno e borghese».
La premessa della disamistade, la vera radice dell’odio, è anteriore anche all’assassinio di Carmine Corraine. Essa viene fatta risalire alla morte di Diego Moro, il più facoltoso proprietario del paese. Piccolo porcaro a trent’anni, la sua fortuna era cresciuta ininterrottamente fino a raggiungere, all’inizio del secolo, un’entità calcolabile intorno alle 250.000 lire di allora» La voce popolare sussurrava anche che una quantità considerevole di zecchini, carlini, napoleoni e verghe d’oro, altre 250.000 lire, fosse scomparsa alla sua morte.
Intorno a questo tesoro si scatenò la rissa fra gli eredi: ne nacquero odi, vendette, uccisioni dei nemici, distruzione delle loro proprietà. La faida divenne più importante dell’oro stesso che l’aveva provocata.
Ma prima, però, era stata tentata la via legale della denuncia e del processo. I parenti di Carmine, infatti, dopo aver ricercalo per tre anni, dal 1905 al 1908, l’uccisore del loro congiunto, riescono a catturarlo e a consegnarlo alla giustizia. Ma le Assise di Oristano assolvono Egidio Podda per legittima difesa, anche se era noto a tutti che aveva ucciso Corraine, disarmato, sparandogli alle spalle dopo una discussione per motivi di pascolo.
Il fallimento della giustizia pubblica scalena la vendetta privata. Le grandi famiglie di Orgòsolo vengono prese nel turbine di una vera e propria guerra civile. I Cossu, i Corraine. i Succu, i Moro e i Devaddis si gettano come fiere nella mischia che raggiunge il punto più drammatico nel 1912, quando l’intera fazione dei Corraine viene costretta da quella dei Cossu, più legata al potere statale, a rifugiarsi sulle montagne.
I Corraine e i loro congiunti diventano allora una banda sanguinaria, anche se composta tutta di “signori” possidentes. Usano la violenza come strumento di regolamento dei conti, uccidendo e dedicandosi all’’abigeato come avevano fatto i più temibili banditi dell’ottocento.
La notte del 6 giugno 1913 vengono arrestate, tutte insieme, 52 persone della “parte” dei Corraine, le uniche che fossero rimaste in paese segregale nelle proprie case. La stessa notte viene ucciso un ragazzo figlio di un capo avversario, e tre giorni dopo due cugini, sempre dello stesso partito, di 13 e 14 anni. Dopo altri cinque giorni la stessa sorte tocca ad altre tre persone. Paska Devaddis si salva rifugiandosi in casa di amici. Si racconta che dopo la cacciata dei nemici, in casa Cossu si fece una grande festa organizzata dal prete don Diego, capo spirituale delia faida, e da Barore Lardu, capo delle forze armate dei Cossu. Vi parteciparono anche dei marescialli dei carabinieri in borghese e funzionari civili di sicuro potere.
La tempesta delle vendette infuriò più di prima, come una maledizione tra le due diverse fazioni. Alla fine della disamistade i morti saranno più di venti.
La faida terminò nell’agosto del 1916, quando le autorità dello Stato riuscirono a convocare nelle campagne di Posada i capi delle fazioni in lotta. Alla cerimonia tribale dì riappacificazione, antica quanto i primi abitatori della montagna, i sopravvissuti giurarono di non combattersi più.
«Coll’Arcivescovo di Nuoro», scrisse Michele Saba, uno degli avvocati della disamistade, «il Vice Prefetto della Provincia, i deputali, i difensori delle due parti in contrasto, intervennero alla cerimonia della pace tutti i componenti delle famiglie che sì erano dilaniate per anni e anni».
Il processo della disamistade fu celebrato a Sassari da marzo a giugno del 1917.
Paska Devaddis era entrata nella faida nel giugno del 1912. Da spettatrice attenta e partecipe ai fatti di sangue che funestarono la gente orgolese diventò protagonista dopo l’omicidio di Antonio Succu soprannominato Caretta, ucciso nella sua casa davanti alla madre, alla nonna centenaria e alla sorella Mariangela, che affermò di avere riconosciuto in Antonio Devaddis e Giuanne Corraine gli assassini del fratello. I due avevano sparato anche a lei: le pallottole le avevano bruciacchiato il vestito. Dalle indagini sulla morte di Caretta risultò che la notte stessa, poco prima del delitto, Paska Devaddis era stala vista in prossimità dell’abitazione dei Succu. Davanti al mandato di cattura, Paska decise di prendere la via dei monti.
Non fu tentala neppure di fuggire in America assieme al fidanzato, come consigliavano alcuni parenti e come avevano fatto Antonio Moro e Antonio Musio, approfittando di una breve tregua.
Dalle allegre compagnie femminili, dalle feste comunitarie in compagnia del suo fidanzato, dalle serene abitudini di una casa agiata e un tempo benvoluta la ragazza passò a una vita durissima e insicura condivisa con altri latitanti il cui unico intento era eliminare i propri nemici con rapidissime discese in paese: ominìas, “cose da uomini”, alle quali non era abituata. Pare che a questa specie dì spedizioni punitive partecipasse alla fine anche Paska, assieme ai suoi compagni di latitanza capeggiati dal bandito Onorato Succu. E c’è da crederci. La giovane, che nonostante la malattia che già la tormentava aveva nelle vene il sangue caldo dei Devaddis. sentiva in modo imperioso l’orgoglio di casta e l’attaccamento alla famiglia. Durante la disamistade aveva assistito all’arresto del fratello Battista, accusato di aver ucciso il 27 febbraio del 1910 Andrea Cossu (il fratello don Diego lo trovò nella sua tenuta di Olètana con il petto squarciato da due fucilate, la testa schiacciala e il ventre aperto come quello di un animale) e condannalo dalla Corte d’Assise di Oristano a 18 anni di carcere; nello stesso anno era stato ucciso durante un conflitto con le forze dell’ordine un altro fratello latitante, Francesco. La sua morte aveva gettato Paska in uno stato di profonda prostrazione. Secondo i testimoni citati nel processo conclusivo del 1917 emergono infatti ipolesi inquietanti anche se abbastanza possibili a quel tempo: Francesco Devaddis, ucciso dalla fazione dei Cossu, sarebbe stato poi consegnato ai carabinieri che avrebbero inscenato lo scontro. Giuseppe Devaddis. padre di Francesco e di Paska, esasperato dalle dicerie e dalle insinuazioni, aveva denunciato i probabili assassini del figlio e i graduati che ne avevano organizzato l’arresto. Ma le accuse di Giuseppe Devaddis erano state dichiarate infondate e gli imputati assolti.
Come se ciò non bastasse, ad arroventare il forte animo di Paska che mal sopportava la fragilità del suo corpo, successivamente era stato arrestato anche il padre, abbastanza in là con gli anni. Giuseppe Devaddis era accusalo di non essere estraneo all’omicidio di Giuseppe Piredda avvenuto nell’agosto del 1911, né al tentato omicidio di Antonio Piredda nell’ottobre dello stesso anno: avrebbe sempre negato con decisione ogni coinvolgimento.
Sulla vita di Paska Devaddis tra le montagne del Gennargentu si raccontano episodi dati per certi, ma ai quali non si può negare il sapore della leggenda. Fra gli altri si ricorda l’avventura di due giovani carabinieri che, mandati a caccia di banditi sul Supramonte e saputo che fra quelle montagne si nascondeva una giovane banditessa, dissero che se l’avessero trovata le avrebbero infilato le mani sotto la gonna. E se la trovarono davanti, infatti, una mattina alle prime luci. «Mi mandano a dire dal paese», disse loro, «che due giovani carabinieri mi stanno cercando per sollevarmi le gonne. Siete voi. per caso?». I due miliari non ebbero neppure il tempo di mettere mano alle armi che i loro berretti già volavano via tra le macchie colpiti da due palle ben indirizzate. Stupiti di ritrovarsi vivi e senza una scalfittura, se la diedero a gambe. Raccontarono a tutti il loro fruito incontro dicendo che Paska, donna bellissima e bruna di capelli, era apparsa all’improvviso come una visione nella luce dell’alba e aveva sparalo senza neppure alzare il fucile all’altezza della spalla. Evidentemente la paura gioca brutti scherzi, perche a quanto si dice Paska Devaddis bellissima non era.
Nel radiodramma di Michelangelo Pira una voce recita: “Bella? Dopo dissero anche che era bella. Ma bella-bella, proprio bella non era, neanche brutta però, era consumata, ma non brutta. Bella, la più bella d’Orgòsolo era Bannedda. Bannedda sì che era bella. Paska Devaddis era invece come noi, né bella né brutta. Non abbiamo neanche un ritratto. Dicevano che l’avevano fotografata, prima di farla a pezzi per l’autopsia, i carabinieri. E ci sarà pure da qualche parte questa fotografia fatta da morta, ci sarà in qualche ufficio di Nuoro o di Roma mangiala dai topi».
Sul periodo di latitanza della giovane banditessa si sa molto poco di certo. A parte il fatto che nell’ultimo periodo della sua vita, durante i frequenti trasferimenti tra gli anfratti della montagna, veniva trasportata dai compagni su una lettiga di frasche.
Alcuni aspetti del personaggio emergono invece dalla testimonianza del vecchio padre e dalle arringhe degli avvocati difensori al ”processone” di Sassari.
L’avvocato Sebastiano Puligheddu, difensore di Antonio Devaddis e di Michele Manca, arrestato, secondo la difesa, per il solo tatto di essere il fidanzalo di Paska Devaddis, chiude la sua arringa mettendo in luce l’aspetto meno conosciuto della giovane banditessa. «Pasqua», dice, «che venne descritta come una fiera amazzone cavalcante per le campagne per disseminare la strage ed il terrore, era invece una povera creatura debole che il male minava e il dolore ha ucciso. Errò per le campagne come cagna randagia, per le foreste come fiera inseguita, e fu trovata un giorno di novembre morta in una rupe del monte, con l’occhio fisso a un punto bianco che spiccava tra il grigio delle rocce granitiche: alle carceri di Nuoro, ove si consumava la giovinezza dello sposo, del fratello, ove si spegneva la vecchiaia del padre».
L’avvocato Luigi Morittu, rivolgendosi a Michele Manca, ricorda cosi quella che per la leggenda barbaricina resterà la donna-bandito senza macchia e senza paura: “Il cadavere di Pasqua Devaddis fu trovato nella sua piccola casa di Orgòsolo, disteso per terra su un drappo di broccato celeste a fili d’oro, tutto vestito di nuovo come per le nozze, con le braccia composte e strette da un nastro celeste e coi piedi ravvicinati da un nastro pure celeste. I medici riscontrarono in lei i caratteri della verginità. Dove morì Pasqua, e chi portò nella sua deserta casa il misero cadavere? L’istruttore non lo ha accertalo. Ma io amo credere che sia morta sulla più alta e sulla più pura delle montagne di Orgòsolo; e che l’abbiano calala in una notte senza stelle i suoi compagni, i banditi. E io credo, o Michele Manca, che i suoi compagni torneranno a te; scenderanno non visti in una tiepida e tacita notte di primavera, al paese addormentato. E ti diranno, essi soli, le ultime parole d’amore, d’infinito, di disperato amore con le quali Pasqua Devaddis ti chiamò invano in quella notte tristissima, senza canti e senza voci umane, nella quale i bandiii piangevano, e la verginità e la morte si strinsero in un amplesso divino». Parole di un avvocato difensore che conosce il suo mestiere. Più sobrie, ma più efficaci, quelle di Silvia De Franceschi, una giovane studiosa sassarese che alla ricostruzione della disamistade di Orgòsolo ha dedicalo la sua resi di laurea. «Nella memoria di Orgòsolo». afferma, «la donna-bandito rimane un ricordo leggendario, un esempio dì coraggio e di sofferenza per la scelta di vita condotta fuori dalla legge ma in piena libertà: è naturale che Paska Devaddis susciti una sorta di ammirazione, senza che si possa con certezza affermare se fosse una pericolosa latitarne o una delle tante vittime innocenti dell’odio che straziò il paese».
[1] Mario Berlinguer, In Assise, Ricordi di vita giudiziaria in Sardegna, Milano, Mondadori – 1945
Tratto da: Banditi di Sardegna di Franco Fresi
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