L’articolo è tratto dalla Rivista delle tradizioni popolari italiane del 1893.
In Gallura, non diversamente che nelle altre parti d’Italia, tutte le feste ormai — come il carnovale, per citarne una – tendono a morire, quelle che pur non sono morte, e a diventare giorni come gli altri, né più né meno: soltanto il Natale – la festa non solo della religione cristiana, ma anche della famiglia, dell’intimità, dell’home, che ha un misto di sacro e di profano, di gaudio religioso e di godimento materiale, di poesia ascetica e di poesia mondana, non accenna a morire.
Il Natale è una specie d’eco che ridesta ogni anno nel sentimento i caratteri di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La festa dei popoli primitivi, passando a traverso le credenze degli altri popoli, comprese le ultime religiose moderne, coll’ andar dei secoli si e avvolta nella superstizione ed ha subito molte trasformazioni, rispondenti all’indole particolare di ciascuna popolazione.
Il Natale ora, in Gallura, come in tutta la Sardegna e in parecchie parti d’Italia, specialmente nei grandi centri, si è spogliato di quella poesia ideale d’un tempo, che è ancora si viva nei paesi ridenti del Nord.
La festa ora è scesa dallo spirito per concretarsi e diventare cosi festa dello stomaco. Come a Napoli si pensa l’intero anno a questo giorno, facendo a spizzico un deposito nelle mani d’un civaiuolo, perché alla notte di ceppo gli mandi a casa una cesta piena d’ogni ben di Dio, cosi in Gallura si pensa da molto tempo prima a preparare commestibili e ingredienti, con cui fare dolciumi per la gran notte.
Però «gli usi di festeggiare il Natale, in Sardegna – come scrive una egregia e colta signorina isolana – variano di paese in paese, quasi di villaggio in villaggio»; però serbano sempre le loro impronte caratteristiche, collegate ad usi, a costumanze e a tradizioni diverse.
In Gallura, cosi, contrariamente agli altri luoghi della Sardegna e del Regno, si mangia dopo l’avemaria – non appena il prete abbia benedette, ad una ad una, le case dei devoti, con l’aspersorio che bagna ogni poco nell’anfora di creta, tenuta dal sacrestano che gli fa compagnia.
Il quale tiene pure un paio di bisacce d’orbagio sull’omero, fantasiosamente arabescate alla parte esterna superiore, entro cui si mette l’anfelta: sorta di pane di farina bianca, disegnato, del peso vario di 400 a 600
grammi, che si suol regalare al prete in ricompensa della benedizione data da lui.
Si sa, “dibbata no si dani mancu bastunati1” dice il popolo gallurese, positivo come tutti gli altri della Sardegna.
1 Gratis non si danno neanche le bastonate. Ogni regalo, vuol dire, deve avere la sua ricompensa.
È notevole, a proposito, questo fatto. Mentre il prete con la stola che gli pende dal collo e che fa baciare da tutti i membri della famiglia, va di casa in casa, una turba sempre crescente di giovinetti lo segue, gridando: Li cozzuli farini!. – che vuol dire: i pani di farina, ossia: dateci pane di farina.
E tutti questi cercano di rubacchiar legna, quando non viene loro data spontaneamente, nelle case, per portarla poi dal prete, che, finito il giro, regala a ciascuno un tozzo di pane più o meno grosso, a seconda della quantità della legna da lui procacciatagli.
Ciò avviene specialmente ad Aggius, dove le tradizioni delle costumanze natalizie hanno una tonalità più spiccata che altrove.
Dopo l’avemaria, dunque, la famiglia – la quale, volendo conservare la pancia per la gran cena, non fa che una piccola colazione in tutto il giorno – ritorna a casa con la letizia nel l’anima e l’avidità nel corpo.
Trova la mensa imbandita di ogni ben di Dio. I buoni Galluresi amano andare alla Messa con lo stomaco ben pieno. Non si può aver diritto d’invocare da Dio la gloria del cielo, se non dopo essersi procacciata un po’ d’allegrezza e di felicità in terra.
E la felicita, temporanea si intende, non può mancare in quella sera, dopo aver mangiati i classici
saporitissimi chjusoni: specie singolare di gnocchi, a cui fanno seguito senza posa, varie e diverse pietanze – secondo l’agiatezza delle famiglie — nonché mostacciuoli, uve e fichi secchi, niuleddi, cucciuleddi, catò, panesabba e inoltre altre specialità di dolci fatti in famiglia che non sono punto inferiori, per gusto,
considerati nella loro varietà, all’aranciata di Nuoro, o ai torroni di Cremona, alle focaccine di Vicenza, alle stiacciate di Livorno,al panettone di Milano e via via.
Tutto ciò che appare in tavola deve scomparire senza posa, giacché quella notte si deve mangiare, veh!
Ad Aggius e a Bortigiadas le mamme sogliono ammonire i figliuoletti che nulla dei cibi preparati deve restar sulla mensa, perchè diversamente guai ! una brutta strega – Palpaeccia – metterebbe loro, mentre dormono a letto, una grossa e dura pietra nell’angolo della pancia rimasto vuoto.
Così, con questa razza di panico, gli assalti a tutti i cibi sono formidabili. E il benessere di questo corpo maledetto appare, vedendo il fondo all’ultimo bicchiere di vino eletto, lo spumante moscato di Tempio, ove stanno i lucidi sogni e le gaie fantasie.
Allora, seduta intorno al focolare, rallegrato dal ceppo che sprizza barbagli d’oro e che dà il nome all’amata solennità, la famigliuola si abbandona alle soavi tenerezze, a lieti entusiasmi…
Le vecchie narrano le fole più geniali ai vispi folletti dei nipotini finché si addormentano. Allora qualcheduno sogna Palpaeccia – la strega descrittagli a tavola dalla mamma – una vecchia brutta, sformata, col naso adunco, il mento aguzzo, l’occhio infossato, dallo sguardo sinistramente scintillante, che porta una pietra nera come l’ebano tra le mani e gliela vuole ficcare nella pancia.
Il bambino grida, manda suoni inarticolati che gli strozzano la gola, schermendosi colle piccole braccia protese, e finisce per svegliarsi, spaurito, cogli occhi stralunati, guardandosi attorno per vedere se la stregaccia sia ancora vicina…
Brutte conseguenze, per i bambini, prodotte certamente dalla – troppa tenerezza delle mamme ignoranti!
Le case delle ragazze però sono dei centri, ove si radunano i giovani d’ambo i sessi del vicinato, e chi chiacchiera del più e del meno, chi passa a rassegna la cronaca nera, chi si diverte a fare… un mondo di giuochi, basati tutti su credenze superstiziose, i quali hanno per iscopo di palesare, secondo le loro credenze, due innamorati o due che diventeranno tali.
Fra i tanti ne accennerò uno.
Si mettono due granellini di orzo a galleggiare su un piatto pieno d’acqua. Un chicco è rivestito delle glumelle, colla resta rivolta in su – e rappresenta la ragazza; – l’altro è l’amante.
Entrambi vengono gettati, uno dopo l’altro, sull’acqua, dopo che a questa si fa prendere coll’indice una corrente a vortice, in modo che l’uomo insegue la ragazza, e se riesce a raggiungerla è segno che nutrono a vicenda della simpatia, e molti affermano che si sposeranno.
Verso le dieci suona il primo tocco della campana, in un modo affatto speciale; e allora in alcuni paesi si recitano i cosidetti Minzis: due filastrocche di parole e frasi, qualche volta in rima fra loro, senza alcun nesso logico, tolte per lo più dall’evangelo di Cristo e dai riti cristiani.
Il primo di questi Minzis detto ad Aggius e a Bortigiadas: Li dodizi apostuli (i dodici apostoli) si crede sia stato recitato per la prima volta da Cristo, sotto spoglie di mendicante, in casa d’una ragazza mentre ella
attendeva, cogl’invitati, lo sposo. Il quale era il diavolo travestito, che aveva saputo conquistare il cuore della ragazza e, fingendo di condurla a nozze, l’avrebbe portata all’inferno, se Cristo non la salvava, recitando il Minzis che ebbe la virtù di pietrificare Satana e il suo seguito.
Il secondo Minzis, composto di nove versi, è tratto da cose non religiose e nell’assieme insignificanti; e si crede detto da S. Martino, in occasione pure di nozze, per scacciare il diavolo.
Questo è meno noto del primo, il quale è risaputo da tutte le vecchie che, come ho detto sopra, al primo rintocco di campana lo recitano, convinte, pur troppo, che abbia maggior potenza di tutte le altre orazioni. Oltre che nella sera del Natale, questo Mìnzis viene recitato lungo l’anno in occasione di pericoli e di temporali, per scongiurarli.
Parecchi affermano che chi lo recita salvi la propria casa e sette altre delle più vicine. Taluni lo recitano tutti i giorni, prima di levarsi. Se lo dicon bene è segno che nella giornata andranno esenti da pericoli; se fanno un solo sbaglio non mettono un piede fuori della porta perchè son certi che incorrerebbero in qualche disgrazia.
In diversi paesi si crede che nella notte di Natale soltanto si possano insegnare o imparare certe parole segrete, atte a guarire, quando vengono recitate, il mal di ventre, il dolor di testa, ecc.
Vi sono pure delle parole che incantano, fermano gl’incendi, le quali vengono insegnate nei giorni che corrono dal Natale al capo d’anno, non in altro tempo, perchè si crede che si perderebbe la virtù in chi l’insegna e in chi l’impara.
A Santa Teresa e alla Maddalena – paesi marittimi – pur si crede che solo in questa notte possano apprendersi efficacemente le parole forti per iscongiurare le trombe marine, tal quale come si crede in Palermo e in altri paesi della riviera di Sicilia; come pure il responsorio di Sant’Antonio in dialetto, che fa ritrovare le cose perdute.
Presso le undici, lo scampanio lieto del terzo rintocco invita i fedeli e… i non fedeli, e tutti accorrono alla gran Messa notturna. A Luras e a Nuchis vi è chi crede che nella notte di Natale, coli’ assi
stere alla gran Messa, si supplisca a tutte quelle perdute durante l’anno.
Anticamente era credenza comune, oggi di pochi paesi e di poche donnicciuole, di lasciare, prima di recarsi in chiesa, la tavola imbandita, perchè, nell’ora della Messa, i morti passano per le case e mangiano.
La folla, dunque, dopo il terzo rintocco si riversa come una fiumana nella chiesa, la quale nell’ombra è solenne, mentre l’altare maggiore, con tutte le candele accese, spicca nello splendore, che gli arredi sacri dorati riflettono, abbarbagliando la vista.
Si cominciano gli offlcii, e intanto il popolino – che s’è portato nella saccoccia una provvista di mandorle, di noci, di mele, castagne, fichi secchi – cerca di riempire il vuoto dello stomaco, effettuatosi colla prima digestione. Da per tutto, ov’è una lastra di pietra, e persino sui mattoni, si sente il rumore prodotto dallo schiacciamento delle noci e delle mandorle.
Quando un prete va nuovo in un paese, si dà briga a far cessare lo scandalo, ma è come fare un buco nell’acqua: tutti sono sordi a’ suoi avvertimenti, se pur non lo pigliano in giro; ed esso finisce per lasciar vive le vecchie consuetudini, come hanno fatto i suoi predecessori.
Non è nuovo il caso che qualche povero prete sia stato messo alla berlina, nei paesi della Gallura, sol perchè ebbe la speranza di innovare, di cambiare le costumanze.
Ma già è mezzanotte. La messa incomincia, e, alla prima nota del Gloria in ecelsis, parte della folla picchia coi piedi o con pietre sui banchi, sui confessionali, sui genuflessorii, sulle predelle degli altari minori, nascosti nella penombra.
Dei banchi, anzi – in un paese vicino a Tempio – qualcuno viene lanciato in alto o in mezzo alla chiesa da sei o sette giovani forti, ed io stesso ho visto andare a gambe in aria quanta gente vi stava sopra seduta: ciò che tra il frastuono produce l’ilarità e le risa di tutti quanti, al punto che se ne parla poi per un pezzo.
Altri si scambiano sul viso dei cerini accesi. Altri ancora si danno spinte, giuocano a scappellotti o a pugni e le donne si urtano l’una con l’altra. Insomma della casa di Dio, per antica costumanza, si fa in quella sera una casa del diavolo … E dopo la Messa dei vivi, dice il popolino aggese, incomincia quella dei morti.
Guai se alcuno rimanga in chiesa, mentre essa viene officiata. Ond’é che ognuno cerca con cura tutti i suoi, e i ragazzi, all’uscita, si attaccano alle sottane delle mamme o al giubbone dei babbi.
E se una vecchiarella si è addormentata in un angolo, è carità lo svegliarla.
In Aggius, si narra appunto che un pover’uomo, essendosi addormentato su di un banco, rimase in chiesa, e quando si destò, la vide piena di morti. Sull’altare, uno di essi officiava, offerendo a Dio, invece di calice, una catena di nudi teschi. Intanto, il vivo, non sapeva che pesci pigliare.
Un suo compare, già morto da alcuni anni, gli si avvicina e gli dice che, se vuol salvarsi, quello è il momento opportuno. Colui non se lo fa dire due volte : balza in piedi e se la dà a gambe. Mentre apre la porta di chiesa, alcuni morti, che alzano la testa, lo scorgono, e gridano: – Al vivo! al vivo! Tutti allora lo inseguono, e sul piazzale lo afferrano pel giubbone d’orbace. Egli, scaltro, se ne sveste, lo lascia nelle loro mani e fugge sano e salvo sino a casa. La mattina di poi, quando ne va in cerca, lo ritrova sul piazzale della chiesa, completamente ridotto in lana.
Altri fatti si narrano pure – l’uno più strano dell’altro – per convalidare tali credenze.
Del resto, che i morti durante li missi di dinotti, sorgano nelle altre chiese — mentre si funziona alla principale — dalle arche, e facciano a torno a torno la loro ridda, è credenza comune di tutta la Gallura.
A Tempio v’è chi afferma di averli visti alla chiesa del Carmine e a quella di S. Francesco d’Assisi.
A Nuchis molti sostengono di aver sentito il vento prodotto dal loro passaggio, scendendo dalla chiesa di S. Cosimo e Damiano, nelle vie, alle due dopo mezzanotte.
A Bortigiadas, dicono d’aver sentito il lezzo che esala dai funebri lenzuoli nei quali si avvolgono.
È pure credenza comune che verso le tre del mattino passi per le vie, in processione, la regula – a Tempio detta traigoggju: – una confraternita di morti, che spesso prendon la forma di cani o di altre bestie, tutte d’un colore e della stessa grandezza: oppure escano li fuglietti: – gli spiriti folletti.
In Tempio veramente si crede che lu traigoggju esca nella mezza notte del primo di agosto, correndo e strascinando dietro di sé delle pelli senza conciare o altro che produca del rumore secco.
Confermano queste credenze, nelle masse del popolo, certe combinazioni o allucinazioni che si raccontano come fatti veri, o che per tali le hanno prese. La fantasia del volgo colorisce stranamente queste leggende, e alcune circostanze fanno loro scorrere entro le fibre il terrore.
C’è nella festa del Natale la stessa nebbia del mistero che avvolge le origini della vita!
Il gran giorno spunta finalmente, e i figliocci e i nipoti vi si presentano a chiedervi la strenna del Santo Natale, mentre vi fanno un lieto augurio.
Voi rispondete all’augurio dando loro una moneta di mezza lira, o d’una lira, o di cinque lire. L’albero del Natale, in cui tocca l’apoteosi di questo giorno la poesia della famiglia, più intima nel Nord, da noi è sconosciuto. La gioia dei nostri ragazzi si esplica nella gran cena e nella strenna – gioia che, per la prima e per la messa, s’accomuna, negli adulti, in un contento pio e tranquillo, mentre si espande nelle allegre libazioni del pasto, fra le copiose vivande e i dolciumi, di cui fumano e odorano le capaci mense.
A Tempio, l’innamorato manda alla sua bella almeno una modesta borsetta di marrons glacès; lo scolaro una bottiglia di moscato vecchio al suo maestro. Ciascuno insomma – ha dei piccoli doveri da compiere.
Terranova, rispetto alle costumanze della Gallura, è quasi un ciondolo spostato, e all’infuori degli usi rituali sacri (a cui, del resto, sono abbastanza indifferenti) non trovate che ben poco di rimarchevole.
Anticamente si; ma ora tutt’al più qualche compagnia di buontemponi si fa una schidionata di carne arrosto, dopo la Messa, e si cionca a meraviglia…
Ad Aggius, all’ora della Messa del mattino, sino a qualche anno fa, solevasi cantare il seguente inno, intitolato L’Anninna di lu Puppu bellu (La ninna nanna del Bambino bello), che credesi tramandato da Maria Vergine. La quale, dicono le donne, lo cantava ninnando il piccolo Redentore. Esso dice:
O Deu, ninnu meu, Beddu più di l’oru. Supra la dura padda Vidisi ch’era natu, E mi parisi un celi Di stelli curunatu, Da soli accumpagnatu Supra un mannu decoru. O Deu, ninnu ecc. [Si ripete). La mamma illu mirallu Amurosa dizia: Vita di la me ita, |
Drommi la me alligna; Funtana sempri ‘ia D’abbundanti tesoru. O Deu, ninnu ecc. Caglia, ninnu caglia, Chi tempu ‘enara, Candu illa dura cruzi Ciudatu hai a istà: E tandu hai a prua Un crudeli disdoru. O Deu, ninnu meu, Beddu più di l’oru. |
Non m’è riuscito di procurare tutto l’inno, perchè non ne ricordano altro. Pare sia stato un vecchio inno della chiesa che riepilogasse passi della vita di Cristo. Ne dò la traduzione letterale italiana, colla stessa costruzione:
O Dio, pargolo mio, Bello più de l’oro. Sopra la dura paglia Vidi ch’era nato, E mi parve un cielo Di stelle coronato Da soli accompagnato sopra (ossia con) un gran decoro. La madre nel guardarlo Amorosa diceva: Vita de la mia vita |
Dormi la mia allegrezza; Fontana sempre viva D’abbondante tesoro. Taci, bimbo, taci che tempo verrà, Quando sulla dura croce Inchiodato starai; E allora proverai Crudel maltrattamento (ossia martirio). |
Un inno simile, ma nel proprio dialetto, si canta pure a Terranova Pausania (Olbia);
Prima di finire di parlare del Natale è bene che accenni alle Carènnuli di Natali, come vengono dette in alcuni paesi della provincia di Siracusa le calende di Natale, ossia i dodici giorni che ne precedono la notte. Da noi si chiamano Conti romani, ma cominciano dal primo giorno dell’anno.
Come in quei luoghi, il nostro popolo crede di indovinare il tempo di ciascun mese dell’anno principiante da questi conti, da queste calende, facendo in questo modo: cominciando dall’uno, che raffigura gennaio, e finendo al dodici, che è dicembre, a ciascun giorno, in ordine progressivo, dando la significazione d’ un mese. Se quindi il primo giorno sarà piovoso, il popolo attesta che gennaio sarà un brutto mese; se il giorno due sarà bello, attesteranno che sarà bello il Febbraio, e cosi via.
Questa credenza si approssima a quella dei Siracusani, come ho detto, e a quella dei contadini danesi.
Andrea Pirotta.