Un nostro lettore, Roberto Moro, ci manda gentilmente un suo scritto relativo all’Abbazia di Paulis (un monastero in rovina che sorge tra Ittiri e Uri, in provincia di Sassari) e del fantasma del “monaco bianco” che l’abitava. Buona lettura.
La leggenda dell’Abbazia di Paulis
A metà strada tra Ittiri e Uri, sul lieve pendio di una collina, circondato dalla macchia, sorge l’antico monastero cistercense di Paulis. Fondata nel XIII secolo ed eretta secondo un’architettura che univa elementi decorativi classici ad altri tipicamente arabi (cosa assai strana e che ha contribuito all’aura mistica che la contraddistingue), l’abbazia è da sempre circondata da un alone di mistero e timorosa riverenza, anche in virtù degli eventi violenti che hanno segnato la sua storia (a cominciare dal misterioso e insoluto omicidio dell’abate di Paulis, avvenuto nel XIV secolo e di cui venne inizialmente accusato il vicario della famiglia Malaspina, si dice per dispute patrimoniali, giacché si narrava che il monastero contenesse grandi ricchezze, accumulate per i motivi che descriverò in seguito). Era abitata da monaci bianchi (dal colore del saio che indossavano) che, secondo i racconti, vivevano in completo isolamento, dedicandosi alla terra, alla preghiera e, dicono le voci, anche allo studio delle arti magiche e dell’alchimia, pratiche queste che avrebbero consentito loro l’accumulo di enormi fortune.
Nel corso dei secoli però l’abbazia, a causa degli eventi storici, cadde in rovina e venne abbandonata nel XV secolo per molto tempo. Divenne così meta prediletta dei cercatori di tesori (siddhados), attirati dalle voci che circolavano sulle ricchezze nascoste all’interno del monastero: i più coraggiosi tra questi, che non si facevano intimorire dalle preoccupanti e insistenti voci che volevano il monastero infestato dai fantasmi dei monaci morti e sepolti nel territorio circostante che agivano come guardie a protezione degli inviolabili segreti dello stesso, si addentravano nel monastero e nei suoi anfratti più reconditi, sotterranei inclusi. Di questi stoici predoni, non si hanno notizie certe: pare che molti non fecero più ritorno a casa e di loro non si seppe più nulla.
L’arrivo di Piero Cau
L’abbazia, dopo anni di incuria, iniziò a riprendere vita nel XVII secolo. Ma fu con l’arrivo di Piero Cau, meglio noto come “su padre biancu” (per via del saio bianco che indossava, come i suoi predecessori) che la fama del monastero raggiunse l’apice. Nato a Cagliari nel 1900 e giunto nel monastero a metà del secolo scorso con l’intenzione di scoprire i segreti che lo avvolgevano, il “monaco bianco” si stabilì a Paulis, come un eremita, conducendovi numerosi studi e altrettanti scavi. Il costante lavoro di ricerca del monaco venne al fine ricompensato: egli, si dice, riuscì infatti a fare sconcertanti scoperte, ritrovando antiche iscrizioni e rinvenendo misteriosi manoscritti, probabilmente gli stessi tomi magici e alchemici utilizzati dai monaci secoli prima.
Ma tali fortunose scoperte non portarono gloria al “monaco bianco“: fu assassinato a Paulis la notte del 7 settembre del 1958 da un suo aiutante (chiamato per sbrigare faccende di poco conto) che, dopo averlo ripetutamente colpito con un coltello, lo buttò nel pozzo che egli aveva trovato e riaperto durante gli scavi. Almeno questo è quanto confessò l’assassino. Perché il corpo del “monaco bianco” non venne mai ritrovato, nulla restava all’interno del maledetto pozzo dove fù gettato il religioso: così come sparirono tutti i suoi scritti, tutti i resoconti delle sue ricerche, tutte le iscrizioni e i libri scoperti duranti gli scavi nel cuore del monastero.
In seguito a questi drammatici eventi l’abbazia venne sconsacrata e abbandonata. Ma si narra che chiunque provi ad avventurarsi tra quelle ormai diroccate mura alla ricerca di qualcosa, vada incontro a strani fenomeni, rumori innaturali, passi provenienti da bui anfratti e oda lugubri voci provenienti da un baratro profondissimo recitare parole incomprensibili in una lingua sconosciuta. Il frate bianco, con i confratelli morti secoli prima, continua ad abitare le fredde mura dell’abbazia, proteggendone gli innominabili segreti da chiunque provi a violarli.
Una bella galleria fotografica sull’Abbazia
Roberto Moro, Ittiri
La figura di Piero Cau
Grazie alla pagina facebook dedicata al Cimitero Monumentale di Bonaria siamo venuti a conoscenza di alcuni particolari molto interessanti legati alla figura di Piero Cau, primo fra tutti il fatto che è sepolto proprio a Bonaria.
Nacque a Cagliari nel 1900 e studiò Lettere a Firenze laureandosi nel 1927 e frequentando alcuni corsi al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Dopo la laurea intraprese la carriera di insegnante, trasferendosi a Sassari ed insegnando al Ginnasio.
Dopo il 1930 cambiò radicalmente vita divenendo un vagabondo mendicante ed unico esponente di un ordine religioso da lui fondato. Si dedicò con fervore all’archeologia di Sardegna, scavando anche a mani nude, ed installandosi nei pressi delle chiese e monasteri che necessitavano di restauri e che conduceva lui stesso con grandi polemiche da parte del mondo scientifico.
Le sue puntate di restauro coinvolsero anche Saccargia, e durante la Seconda Guerra Mondiale venne scambiato per una spia inglese ma fortunatamente venne rilasciato perché conosceva il comandante di servizio.
Negli ultimi anni della sua vita si trasferì ad Ittiri per restaurare l’abbazia cistercense di Paulis, spesso dormendovi insieme a due suoi aiutanti.
Viveva in una stanza attigua alla navata principale della chiesa. Con lui viveva un altro studioso caduto in disgrazia e con alcuni problemi di alcool che era amatissimo dagli uresi: “Il signor Macis“, che dopo la morte di Cao si trasferì ad Uri.
Macis era ricco di famiglia ed era originario di Quartu o Quartucciu e si dice infatti che molti reperti, i più importanti, della chiesa di Paulis, si trovino ancora nelle proprietà della famiglia. Macis e Cao, secondo le leggende uresi, tra le altre cose avevano individuato l’ingresso ai sotterranei (mai trovati neanche in seguito) dell’abbazia in cui si vociferava che i monaci si fossero chiusi a seguito di un attacco e fossero morti all’interno. A tal proposito si racconta che Macis venne indotto a bere più volte, al fine di estorcergli qualche segreto ma tenne sempre la bocca chiusa.
Venne assassinato il 7 Settembre 1959 ed il suo corpo venne gettato in un pozzo nei pressi dell’abbazia stessa ad opera di un suo collaboratore, il ventiquattrenne Salvatore Fois, reo confesso, che si accollò la colpa sebbene fin da subito si pensò l’intervento di più persone. Il cadavere venne recuperato nel pozzo dai carabinieri e l’autopsia segnalò la presenza di ferite da arma da taglio nel corpo e nel viso.
Gli atti del processo che si svolse si trovano all’archivio di stato di Sassari. Molti abitanti di Uri testimoniarono spontaneamente contro l’omicida. Testimoniò anche Macis in favore dell’amico fraterno Cau con una testimonianza struggente e commovente.
L’archeologo Mauro Dadea, autore del libro “Memoriae. Il museo cimiteriale di Bonaria a Cagliari” riporta che fu il Cau a recuperare le sculture architettoniche dei ruderi della chiesa di San Bardilio, nel 1929.
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