Su contusu è la prima volta che affrontiamo il discorso licantropia in Sardegna. Lo facciamo grazie al racconto dell’amico Pasquale Demurtas ed al suo ultimo lavoro “Sardegna paranormale’. Grazie all’amico Pasquale Demurtas e a quanti ci riporteranno fatti di loro conoscenza relativi ai lupi mannari nostrani.
Tutti sanno dell’influenza che la luna esercita sulla natura, ad esempio sull’innalzamento delle maree o su alcuni animali, come i lupi e il loro ululato nelle notti di plenilunio.
Un altro aspetto invece è molto meno chiaro, nessuno ha mai dimostrato con assoluta certezza se essa possa influenzare l’agire umano.
Vero è che da sempre l’uomo è stato affascinato dal cielo, dagli astri e ovviamente da questo straordinario satellite tanto che, sovente, ricorre nella saggezza popolare la credenza che ci vede, alla pari degli altri essere viventi, soggetti al variare delle sue fasi.
Si narra che quest’ultime influenzino alcune malattie mentali note alla medicina, come ad esempio l’epilessia o la schizofrenia, altre ignote e inverosimili per la scienza, come ad esempio la licantropia, fenomeno questo, largamente conosciuto e descritto in svariati racconti orali e scritti che ci sono stati tramandati nei secoli.
Storie di uomini che assumono le sembianze di belve conosciute con gli appellativi di uomo lupo o lupo mannaro.
Leggete quanto segue e traete le vostre conclusioni.
Siamo agli inizi del XX secolo, in un paese in cui il ritmo della vita e del lavoro è fortemente scandito da quello delle stagioni e dai suoi fenomeni atmosferici: piogge, neve, sole e siccità, l’alba del giorno e il tramonto della sera.
Qui viveva una famiglia numerosa che, come altre, traeva il proprio sostentamento dalla terra.
Fra tutti i figli che fin da piccoli erano stati avviati al lavoro nei campi, si distingueva per forza e determinazione il
giovane Geremia.
Poco dopo la sua nascita, i genitori si accorsero di alcune strane reazioni notturne, di cui era vittima il piccolo in determinati periodi del mese.
Nel tempo, queste manifestazioni iniziarono a presentarsi con sempre maggior violenza.
Accadeva ad esempio che riuscisse a compiere gesti che normalmente erano impossibili da imitare per i coetanei e non solo.
Era in grado di sollevare oggetti dieci volte il suo peso, manifestazioni di eccessiva energia, come balzi rapidi e impetuosi, fame invincibile, rabbia e avversione al sacro.
Il medico al quale fu affidato, incuriosito dalla rapida crescita fisica e dalla forza, iniziò a interessarsi al suo caso.
Rispolverò i suoi manuali accademici, si appassionò a testi, credenze e tradizioni popolari, riguardanti casi di licantropia.
Passò, così, notti intere di studio e supposizioni. Cercò, senza alcun pregiudizio di sorta, di porre in essere una diagnosi più chiara e lineare possibile, non escludendo nessuna eventualità metafisica, mettendo in conto che questo avrebbe potuto scatenare l’ironia dei colleghi.
Giunse ad affermare con convinzione che l’indole di Geremia era influenzata da una forza misteriosa, capace di scatenare reazioni isteriche e violente, tali da associare alla sua persona comportamenti e caratteristiche ascrivibili al mondo animale.
Decise dunque, di illustrare la sua tesi al padre del ragazzo: “Caro Giovanni, ho necessità di farti presente quanto segue. Tuo figlio sta crescendo, se fino ad ora è stato semplice controllare questa malattia, con l’età adulta sarà assai più complicato“.
Il padre replicò perplesso: “Dottore, che volete dirmi, per l’amor del cielo? Qual è il problema di mio figlio?”
“È difficile da spiegare e da comprendere, ma vede, credo che la sua perdita di razionalità abbia un legame con i cicli lunari.”
Il vecchio rise di gusto, mentre versava nel bicchiere del medico un buon vino.
“Bevete! caro dottore, bevete! almeno potrò pensare che le vostre teorie siano frutto dell’effetto del mio rosso. Non si offenda, ma questa storia mi ricorda le serate attorno al camino con i miei genitori, quando mi raccontavano queste novelle per farmi andare a dormire presto o per evitare che uscissi a far baldoria con gli amici.”
Il medico allontanò da sé il calice, stizzito.
Alzandosi di scatto, replicò: “Avremo certamente modo di ritornare sull’argomento. Buona giornata, caro Giovanni”.
Gli anni passarono inesorabili, i due ebbero modo di rivedersi perlopiù per semplici prescrizioni mediche, problemi di salute saltuari o controlli di routine.
L’argomento Geremia fu bandito per tacita volontà di entrambi, anche perché la sua vita pareva proseguisse normalmente.
Fino a quando…
I pastori delle campagne limitrofe, sempre più spesso, lamentavano di aver subito perdite ingenti di bestiame, di esser stati vittime di attacchi notturni dovuti forse a branchi di cani randagi o chissà, di altre bestie fameliche.
Nessuno notò la concomitanza tra queste razzie e le notti di plenilunio, ma vista la cadenza periodica degli incidenti, non tardarono a farsi strada diverse supposizioni.
Fra tutte spiccava quella di Giovanni, il quale, avendo anch’egli registrato ingenti perdite al proprio gregge, richiamò alla sua mente la conversazione avuta col medico tempo addietro.
Perplesso, decise di non dire nulla, di temporeggiare.
A convincerlo che fosse giunto il momento di rompere gli indugi fu un fatto verificatosi durante una notte d’inverno.
Il giovane Geremia stazionava presso un bivacco del paese, covo di bevitori e giocatori d’azzardo.
Al tempo, raramente gli allevatori si trattenevano nel centro abitato, preferivano soggiornare al loro podere anche per mesi interi.
In quella notte di dicembre Geremia ricevette dal padre l’ordine di andare a vendere a domicilio la fresa, un formaggio fresco tipico del paese.
L’incasso andò oltre ogni più rosea aspettativa e il ragazzo, pensando di meritarsi qualche bicchiere in più, fece
ritorno al bar.
Tra un sorso e l’altro, finì col passare l’intera notte presso la locanda con degli amici trovati lì per caso.
Bicchiere dopo bicchiere si fece prendere dal giuoco delle carte e mano dopo mano, Geremia perse tutto ciò che aveva guadagnato dalla vendita.
La rabbia era tanta al sol pensiero della reazione che il padre avrebbe potuto avere.
Iniziò a dimenarsi, a sbattere i pugni sul tavolo, perse completamente il controllo di sé quando si vide malmenato e deriso.
Ciò che seguì fu orribile, non lasciò nessun superstite, nemmeno un testimone oculare, tuttavia la brutalità del crimine fu ben evidente alle forze dell’ordine che la mattina seguente accorsero sul luogo del delitto.
L’unico sopravvissuto, Geremia.
Era nudo nel fisico e ugualmente spoglia era la sua mente, nessun ricordo dell’accaduto, forse avete già capito, cari lettori, che tipo di luna vi fosse nel cielo mentre si consumava il massacro.
Era stata quella, una notte di plenilunio.
Geremia, attonito, fu prelevato dalle Autorità, portato in giudizio e dopo esser stato condannato per omicidio plurimo, venne rinchiuso in un carcere prima, in manicomio, dopo pochi mesi.
Epilessia e schizofrenia, questa la diagnosi.
Qui, la sua condotta fu esemplare, almeno durante il giorno, ma ancora, nelle notti di luna piena, veniva come posseduto da un’invincibile forza, folle ed assassina, una vera e propria “sindrome da trasformazione”, così venne descritta genericamente.
Il mondo, da lì a breve si ritrovò in frantumi a causa dello scoppio del primo conflitto mondiale.
Negli anni della grande guerra non ci fu posto nella cronaca dei quotidiani per la storia del folle Geremia.
Solo verso la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, un giovane e brillante medico psichiatra venuto a conoscenza di questa singolare storia ne fu affascinato, tanto da decidere di occuparsene personalmente.
Avviò le procedure giuridico-legali per riesaminare il caso, in modo da poter ottenere il benestare del magistrato, indispensabile per visitare il paziente, aver accesso al quadro clinico, cercare di far luce sul movente che spinse il detenuto a commettere un delitto così efferato.
Erano diversi gli aspetti contenuti nella versione ufficiale che non lo convincevano.
Il 7 dicembre del 1931 il medico aprì ufficialmente il fascicolo che recava il seguente titolo: –Sindrome da trasformazione o licantropia? Il singolare caso di Geremia Cossu da Ploaghe.-
Così, ebbe inizio il suo studio. Utilizzò il metodo di ricerca psichiatrica di Benjamin Rush, che consisteva nell’eseguire esperimenti sul corpo del paziente al limite della tollerabilità umana.
Veniva sottoposto a punizioni corporee crudeli, rinchiuso in gabbia o all’occorrenza, in armadi o stalle per animali, incatenato e frustato.
Venivano definiti “trattamenti” nel lessico ufficiale, ma in realtà si trattava di vere e proprie torture.
Tra questi, vi erano: -“dissanguamento fino a fargli perdere quattro quinti del sangue”; -“reclusione in una vasca d’acqua, nella convinzione che l’avvicinamento ad uno stato simile all’annegamento avrebbe scacciato la malattia”;
-“produzione di vesciche alle caviglie per far allontanare il sangue dalla testa surriscaldata”.
Tuttavia, il metodo non si rivelò per nulla efficace, anzi, le condizioni del paziente peggioravano, ormai somigliava più a una larva che a un uomo.
Nei documenti, insieme ai dettagli più strettamente tecnici, il medico trovò annotata una frase che il povero Geremia proferì: “Chi è la bestia? Io ho causato dolore e morte inconsapevolmente, ma voi, potete dire altrettanto?
Guardatevi! Guardatemi! Provate piacere nel procurarmi dolore?”
Quelle parole lo colpirono al punto che decise di non infierire oltremodo.
Cercò di proseguire il suo studio avanzando nuove ipotesi e approfondendo le sue ricerche.
Consultò la letteratura popolare di mezza Europa su casi di trasformazione e scoprì che la tradizione contemplava casi analoghi a quello di cui si stava occupando.
Suo malgrado, giunse alla conclusione che la licantropia era una fattispecie verosimile, una patologia non diagnosticabile scientificamente ma che non si sentiva di escludere.
Le cause di trasmissione evidenziate erano due: esser morsi da un lupo mannaro, oppure esser vittima di un sortilegio o maledizione.
Finalmente il medico si recò presso il podere dei Cossu a Ploaghe, oramai una fiorente azienda nell’agro paesano. Trovò il padre, avanti con gli anni ma sempre in forze e lucido nel pensiero.
La moglie, taciturna e ombrosa, stava in disparte vicino al camino.
Trascorreva le giornate cucinando, occupandosi della casa e di tanto in tanto dedicandosi alla lettura di testi arcani.
Entrato nella dimora, si avvicinò alla donna, la quale rimase immobile dinanzi al focolare.
Il dottore le chiese: “Che leggete di così importante?”
Ella si voltò di scatto.
Aveva le pupille completamente bianche, uno sguardo al contempo assente e terrificante.
Non proferì parola, si rivoltò e continuò a leggere ripetendo, cadenzando e sospirando con affanno parole incomprensibili.
Il medico uscì impietrito dalla stanza e sedette all’esterno su una pietra.
Sconcertato, senza parole, stette immobile per qualche tempo, fin quando il padre di Geremia gli venne incontro. Non disse niente, ma guardando il volto del dottore, capì.
Gli tese una mano per farlo alzare e con l’altra fece cenno di seguirlo.
Si spostarono di qualche ettaro, si sedettero all’ombra di una quercia secolare e prese parola: “Ascoltami, disse, ascoltami in silenzio senza fiatare.
Anni fa conobbi una donna, una bellissima donna e decidemmo con mia moglie di occuparla nelle faccende domestiche.
Ero ormai felicemente sposato da diversi anni, avevo già avuto il mio primogenito, ma tanta fu la passione per questa giovane, che ne fui travolto nel corpo, nel cuore, nella mente e nell’anima.
Senza volerlo, mi trovai disarmato dinanzi a cotanta bellezza, non riuscii a far nulla per ostacolare l’avanzata di questo immenso amore che mi lasciò inerme.
Ebbi una relazione segreta dalla quale nacque un figlio, Geremia.
Quando mia moglie venne a conoscenza del nostro legame, uscì fuori di senno.
Per non dar scandalo in paese, decise di tenere il figlio e di crescerlo come fosse il frutto del nostro matrimonio.
Della nostra domestica, del mio grande amore, non seppi più nulla.
La sua era una bellezza troppo ingombrante.
È inutile chiederci cosa sia successo, non la vidi più e so per certo che non scappò.
L’ira di mia moglie non si placò nemmeno dopo aver ucciso la giovane, le sue angherie si fecero sempre più pressanti nei confronti di Geremia, tanto che, mossa dall’odio scagliò verso di lui una maledizione, un potente maleficio che fece di lui una bestia.
Anni fa un medico del paese intuì la natura diabolica del male che affliggeva mio figlio, feci finta di non sapere, di non comprendere ma in cuor mio conoscevo l’atroce verità di cui parlava.
La vita, caro dottore, è piena di misteri inspiegabili, questo è uno di quelli“.
Il giovane psichiatra, scosso e turbato da quanto udito, dovette credere, suo malgrado, alle parole commosse del padre, a costo di esser deriso dai suoi colleghi, i quali, fermi nelle proprie convinzioni scientifiche, mai e poi mai avrebbero creduto ad un simile racconto.
Salutò con un forte abbraccio Giovanni e si rimise in cammino verso la città, dove, armato di coraggio, espose il caso presso l’aula Magna dell’Università, ma come da copione, fu accusato di esser un cialtrone e visionario.
Intanto, in lungo e in largo, la storia del lupo mannaro iniziò a circolare celermente e si diffuse tra tutti gli abitanti del territorio.
Geremia fu ritrasferito in carcere. Qui, continuò a esser tormentato dai compagni di detenzione, sovente fu vittima di soprusi e insulti.
I suoi aguzzini, pensando si trattasse semplicemente di un folle, si misero d’accordo per dargli una sonora lezione, durante una notte di luna piena.
Fu il loro ultimo scherzo.
Entrarono di soppiatto nella cella e videro davanti ai loro occhi quello di cui tutti parlavano ma a cui nessuno credeva.
Furono letteralmente sbranati.
Le urla risuonarono per tutto il carcere e subito giunsero i secondini, i quali temendo un’aggressione, furono costretti a far fuoco contro la bestia.
Lo colpirono ripetutamente al cuore, lasciandolo privo di vita.
Il mostro sparì, rimase disteso tra il sangue solo il corpo di Geremia, nudo e inerme.
Se egli sia stato un povero ragazzo senza colpe, trasformato in bestia da un maleficio, oppure, una persona che nacque col cuore di una belva o ancora, semplicemente un matto criminale, sta a voi lettori deciderlo.
PASQUALE DEMURTAS