Il 14 maggio 1906, si scatenò una delle più grandi manifestazioni di popolo che la città di Cagliari abbia mai conosciuto con la folla che mise i quartieri sottosopra: fu dichiarato lo stato d’assedio, scesero in strada fanteria, bersaglieri e cavalleria e l’esercito e ricevettero l’ordine di sparare a vista contro i manifestanti.
Due persone, un fruttivendolo di 19 anni e un manovale di appena 15, rimasero uccisi.
Da quel momento la protesta per il caro-vita e le dure condizioni dei lavoratori si estese in tutta la Sardegna dove si registrano 20 morti (cinque pastori a Villasalto colpiti alla schiena), altri a Iglesias e centinaia di feriti.
Sergio Atzeni, nel suo libro “QUEL 1906” scrive:
“…La folla scese dal Bastione al canto dei lavoratori.
Ovunque c’erano i carabinieri, nelle piazze, negli angoli delle vie, negli edifici pubblici, al porto e alla stazione.
Le autorità scappavano in preda al panico.
Nel largo Carlo Felice, in via Roma, piazza Costituzione, i bottegai vendevano i prodotti a prezzi bassissimi. Li seguivano i rivenditori del mercato centrale, rifiutando di pagare i dazi per evitare nuovi aumenti.
Ma gli agenti si trovavano già schierati a pochi metri, con le spade sguainate.
Colonne interminabili di povera gente si muovevano verso Sa Scafa per dare l’assalto ai casotti del dazio e incendiare gli uffici dove venivano pagati gli iniqui diritti feudali di pesca: la famosa “quarta regia”, ovvero un quarto di pescato al Re di Savoia.
Altri gruppi, invitati dai carrettieri campidanesi, si portavano nelle strade del centro, per buttare a mare le vetture dei tram.
Alla Stazione Reale, quando il traffico venne bloccato dai ferrovieri, le guardie regie suonarono la carica e aprirono il fuoco.
I morti: Giovanni Casula, manovale, 16 anni; Adolfo Cardia, 19 anni, pescatore.
Tra i feriti, l’undicenne Cesare Vacca, e altri sei ragazzi sui quattordici anni.
Erano “is picciocheddus de crobi“, figli del popolo che per pochi centesimi caricavano i cestini della spesa per le famiglie nobili del Castello.
Il piombo non intimidì i cagliaritani.
Una folla immensa si radunò davanti alla Prefettura, ed ottenne il rilascio immediato dei lavoratori arrestati. Intanto la rivolta si era estesa all’intero Campidano.
Nel triangolo Muravera-San Vito-Villaputzu le autorità se la diedero a gambe, e i contadini per riempire il vuoto di potere costituirono un comitato di autogoverno.
Al Parlamento, convocato d’urgenza, tra le vibrate proteste delle sinistre, il ministro sardo Cocco-Ortu invocò l’intervento delle navi da guerra.
Il governo e il Re fecero dirottare verso il porto di Cagliari l’intera squadra del Mediterraneo.
Altre truppe arrivarono da Napoli, Genova, Palermo e Livorno: carabinieri, fanti, bersaglieri, marinai e artiglieri con cannoni e fucili.
La reazione si scatenò tremenda, cieca, sanguinosa.
Non si seppe mai il numero dei morti e dei feriti.
Si parlò di 17 morti a Gonnesa. 6 a Monte Scorra, 7 a Nebida.
Per le centinaia di arrestati non bastarono le carceri: vennero requisiti i magazzini di Iglesias.
Lo Stato ristabiliva l’ordine con la vendetta.
I morti del 1906 segnarono una svolta decisiva per i sardi.
Non si trattò affatto di una sconfitta.
Cadde l’amministrazione Bacaredda.
Il governo Sonnino venne travolto.
Furono aumentati i salari nelle miniere, concessa la riduzione delle ore di lavoro, conquistata la giornata festiva settimanale.
A Gonnesa e nelle miniere più importanti si costituirono le Leghe di resistenza.
I lavoratori, il popolo sardo avevano preso coscienza della propria forza.
La rivolta aveva rivelato, per la prima volta nella città e nella campagna, un inesauribile potenziale di lotta che avrebbe portato lontano la Sardegna, verso traguardi di unità e di autogoverno, in una diversa e avanzata organizzazione statale.”