Abbiamo trovato in rete un articolo che elenca i diversi tipi di racconto presenti in Sardegna. Non potevamo non inserirlo su Contusu.
Sos contos de foghile (I racconti del focolare)
Quando si va nei paesi della Sardegna alla ricerca di racconti popolari e si chiede genericamente di ascoltare Contos o Paristorias, spesso si ottengono soltanto risposte evasive o addirittura sorrisetti ironici, come se si richiedesse di riaprire discorsi che appartengono ad un mondo ormai sepolto o, al limite, circoscritto all’età infantile. Ma se si chiede di raccontare Contos de foghile, allora il discorso cambia, perché in tal caso non è il genere narrativo in sé che entra in discussione, ma soprattutto un’ambientazione ben nota: è “il tempo del racconto” che ritorna.
Tutto incominciava dopo il tramonto, ti dicono, al rientro dal lavoro. E la dimensione temporale sembra trasferirsi in un’epoca remota, che è poi l’età preindustriale di sessanta/settanta anni fa, ma che sembra già appartenere ai miti dell’infanzia. Dopo una cena frugale, ci si sedeva sugli sgabelli di ferula o di sughero attorno al focolare (su foghile fattu de battor predas: il focolare delle antiche “pinnette”, fatto di quattro pietre al centro della stanza), e in tempi più recenti attorno al caminetto (sa ziminera), e qui si incominciava a parlare, ad ascoltare e a fissare i ricordi d’una giornata quasi sempre monotona e faticosa. Era una sosta necessaria prima del riposo vero e proprio: e si parlava di tutto. I Contos erano telegiornale, spazio pubblicitario e spettacolo serale insieme. Ma con in più quel senso vivo di partecipazione umana che oggi il piccolo schermo ha reso ormai quasi sterile.
Sos contos de jannile (I racconti sulla soglia di casa)
Oltre a su foghile, luogo principe deputato alla narrazione dei Contos, esistevano nel corso dell’anno anche altri momenti e occasioni di racconto, con l’obiettivo di mantenere intatti i contorni della memoria collettiva.
Ad esempio, durante le interminabili nottate delle Novene delle feste religiose, all’interno delle cumbessias (le casette che contornavano le piccole chiese di campagna, dentro cui pernottavano i pellegrini), sas mastras ’e contascias, le maestre di fiabe (talvolta persino “ingaggiate” dall’esterno), davano fondo a tutte le loro conoscenze fiabesche e leggendarie per intrattenere amici e ospiti. Ma anche durante le pause serali degli incontri collettivi per la raccolta del grano e dell’uva, oppure durante s’ispuligadura, la spigolatura del granturco, fiabe e leggende contribuivano a rendere meno monotona la ripetitività dei gesti d’una dura giornata di lavoro.
Altre occasioni di racconto, legate questa volta a oscuri e primordiali motivi di esorcizzazione delle forze del male, erano le veglie per i parenti defunti, le notti trascorse a far bollire in grandi paioli comunitari panni sporchi e lenzuola e persino i momenti di cottura del pane nei forni, di primo mattino. In questi casi, le fiabe da sole non bastavano a tenere lontane le oscure forze maligne che impedivano all’anima del morto di lasciare il corpo, oppure all’acqua bollente di disinfettare i panni o al lievito di gonfiare il pane. Occorrevano allora storie molto più “forti”: contos di vivi e di morti, storie di Purgatorio e di anime dannate, racconti orrorifici di scheletri e di morti viventi che nessuno doveva interrompere, per non scatenare la reazione dei sospettosissimi spiriti della notte. Era la magia della parola contro l’atavica paura del buio. E c’erano, infine, i Contos de jannile, i racconti della soglia di casa, il limen dei latini (il liminargiu, appunto, dei campidanesi).
I racconti della soglia rispondevano ad una precisa necessità di più ampia socializzazione dei Contos, giacché si rivolgevano verso l’esterno dell’abitazione, direttamente sulla stradina o sul “patio”, la piazzetta in stile spagnolo che metteva in relazione fra loro tutte le case del vicinato; oppure all’interno de sa lolla, l’ampio cortile interno che, nel Campidanese, costituiva (e in parte costituisce ancora oggi) lo spazio di relazione privilegiato dei diversi nuclei d’una grande famiglia patriarcale.
Sedute direttamente sulla soglia di casa, oppure su sediette di sughero o di ferula, collocate quasi frontalmente l’una con l’altra, le comari del vicinato cucivano o sferruzzavano continuamente, oppure tessevano e arrotolavano con gesti immutabili il filo di lana lungo e forte attorno alla rocca. E tra uno scambio di informazioni usuali e di cortesie, tra un pettegolezzo e l’altro, infilavano anche brevi racconti, facezie, barzellette, aneddoti divertenti, ma anche memorie di vecchie tragedie o di salaci commedie, per far trascorrere le lunghe ore dei pomeriggi assolati, così da raggiungere senza noia le prime ombre del crepuscolo.
Contascias e Contados (Fiabe semplici e complesse)
In questo capitolo abbiamo raccolto un numero piuttosto consistente di “Fiabe di magia”, le cosiddette Contascias o Contados in Logudorese e Campidanese (nella parlata catalana di Alghero sono invece chiamate Rundalias). Il termine Contascia ha già in sé una sorta di significazione affettiva, perché principalmente destinata all’infanzia, anche se gli adulti, nelle particolari situazioni comunitarie in cui venivano raccontate, non ne disdegnavano l’ascolto. Nel Logudoro, i narratori di fiabe più famosi venivano chiamati Mastru ’e constascias (Maestro di fiabe) e godevano di particolare considerazione, tanto da meritare, in alcuni casi, dei veri e propri compensi, sia pure in natura.
Ciò che caratterizza maggiormente le contascias sarde sono: l’ambientazione, facilmente individuabile, anche se mancano quasi del tutto le descrizioni (ma questa è una caratteristica “planetaria” delle fiabe vere e proprie), una certa “asciuttezza” di narrazione e soprattutto la prevalenza dell’elemento femminile tra i personaggi principali. Non a caso, quasi tutte le protagoniste si chiamano “Maria” o “Mariedda”, che è poi uno dei nomi più diffusi, in Sardegna come altrove, ma anche quello più facilmente identificabile come “eroina”. Le nostre eroine si chiamano, infatti: Maria Intaulada (Pelle d’Asino), Maria Chisjnera (Cenerentola), Maria ’e su Buscu (una Biancaneve che se la vede con 12 banditi e non con 7 nani), Maria Bella ’e s’appiu (Petrosinella) eccetera. E la loro struttura non differisce di molto da quella delle fiabe omologhe conosciute in tutto il mondo.
Contos de birbantes e de maccos (Storie di furbi e di sciocchi)
Le storie dei furbi e degli sciocchi hanno sempre avuto un grande successo presso qualunque uditorio, durante le serate attorno al focolare. Basti pensare al ciclo medievale del contadino Bertoldo, che si fa beffe quasi impunemente di re e regine, le cui avventure hanno un illustre precedente nella vita avventurosa e sfortunata del grande favolista Esopo (VI secolo a.C.); oppure agli incredibili scherzi dei personaggi buontemponi delle novelle del Boccaccio: facezie e novelle di vario genere, a cavallo tra fiaba e aneddoto.
Questo genere di storie comprende soprattutto racconti aneddotici e persino barzellette, il cui compito principale è quello di tenere su di morale l’uditorio, per prepararlo all’ascolto delle fiabe vere e proprie e alle paristorias.
Il repertorio di per sé è ricchissimo, perché varia dalle singole avventure di personaggi del tipo “Giuffà” a vere e proprie saghe incentrate su “eroi” facilmente identificabili in manigoldi e profittatori dell’ingenuità di alcune popolazioni, i cui abitanti vengono descritti come dei semplicioni facili da raggirare, come capita, ad esempio, nella saga di Mussingallone (Monsiù Gallone): personaggio quasi storico (forse un ex ufficiale napoleonico oppure un alto funzionario piemontese), il quale approfitta dell’ingenuità degli abitanti del paese di Lodè, nella Barbagia, per campare a sbafo. Oppure il giovane Pisigulu (Ficcanaso), alle prese con dei fratelli egoisti e molto stupidi, che si lasciano gabbare con facilità.
Naturalmente, i racconti dei furbi e degli sciocchi possono essere inseriti facilmente anche nel genere fiabesco e in quello leggendario, perché si prestano benissimo anche in funzione di prologo a storie più complesse. Ne sono un esempio, in questa raccolta, la fiaba de Sa mula cagainari (Contascias e Contados) e alcune leggende sui diavoli gabbati, come ad esempio Sant’Antoni de su fogu, oltre alle innumerevoli leggendine su Gesù e San Pietro, quello delle cosiddette Paristorias (Leggende).
Paristorias (Miti e leggende)
Per uno di quei bizzarri capricci del destino, che si diverte spesso a mescolare le carte della storia, mentre nel resto dell’Europa impazzava il Medioevo, la Sardegna entrò in una sorta di limbo epocale molto simile ad un Rinascimento anticipato, magari un po’ povero ma anche alquanto sereno e un po’ misterioso, se non addirittura magico.
Era accaduto, infatti, che la dominazione araba sui mari del Mediterraneo, intorno al 700 d.C., aveva reso impossibili i già precari contatti con l’Impero Romano d’Oriente, quello bizantino, di cui la nostra isola era una delle province più lontane e periferiche. Non solo: mentre in Sicilia gli arabi si erano insediati più o meno stabilmente, in Sardegna, terra di rapina, avevano mandato, invece, i loro pirati, ad assaltare porti, massacrare pescatori e catturare schiavi, costringendo i sardi a tenersi lontani dalle coste e a chiudersi ancora di più nel proprio isolamento.
Col passare del tempo, mentre lungo le coste le antiche terre già bonificate dal lavoro ridiventavano paludi e vi si scatenava il biblico flagello della malaria, nessuno si preoccupò di avvertire la Sardegna – sempre più isola nell’isola – che tutto era finito, che gli antichi padroni l’avevano abbandonata a se stessa, che si poteva far a meno del “Codice Giustinianeo”, che l’imperatore Costantino non era più il tredicesimo apostolo di Cristo e che, di lì a qualche millennio, non sarebbe stato più nemmeno santo.
Ma la cosa più straordinaria fu che nessuno avvertì i suoi “giudici” – e cioè i viceré dell’Impero, un po’ magistrati e gabellieri, oltre che imperscrutabili detentori di poteri misteriosi provenienti da un mondo lontano – che non rappresentavano che se stessi. Ed essi, i giudici, abituati da sempre a far da sé, ad autoreplicarsi senza attendere i ricambi, continuarono imperterriti ad amministrare la giustizia, ad impartire antiche e rassicuranti disposizioni, ad organizzare in maniera sempre uguale la vita nei loro “giudicati” per altri tre o quattro secoli (un terzo di millennio!).
Rinchiusi nel loro barbarico isolamento, quasi dimenticati dal resto del mondo, i sardi ricostituirono la loro silenziosa civiltà, fatta di piccoli villaggi senza tempo, quasi irraggiungibili fra loro e pure comunicanti attraverso gli stessi riti e le stesse antichissime regole non scritte, con la supervisione di questi straordinari giudici, forse sempre gli stessi, immortali custodi di una mitica “Avalon” del Mediterraneo che nessuno cercava più.
Fino a quando i nuovi pirati delle Repubbliche marinare e, soprattutto, i detentori di nuovi poteri imperiali, sui cui confini “non tramontava mai il sole”, non scoprirono nuovamente la Sardegna e vi importarono il Medioevo.
Da quel remoto e affascinante periodo storico ci viene la parola Paristòria, dal greco-bizantino Paristorìa, nel senso di falsa narratio (Wagner, D.E.S. II), ma anche, diciamo noi, di “para-historia”: “quasi storia”, insomma, che insaporisce e arricchisce i fatti storici veri e propri.
Storia e Paristoria, ad esempio, accompagnarono da sempre le imprese di Donna Eleonora, l’ultima grande Giudicessa, eroina dalla spada incantata e dagli oscuri poteri taumaturgici, capace di conquistare castelli e di sconfiggere la Morte. Ma Storia e Paristoria s’incrociano anche nei riti e nei miti come quelli collegati all’“Ardia” (Guardia) di San Costantino, imperatore e tredicesimo apostolo di Gesù (secondo la mitografia bizantina), che ancora oggi non sa nemmeno di non essere più un santo.
Per questa e per altre ragioni ci è sembrato giusto coniugare il termine Paristorias con i miti e le leggende, piuttosto che con le fiabe o, come suggerisce il Wagner, con “favole e frottole”.