Un paese gioiosamente animato dal chiacchiericcio dei bambini, i campanelli che suonano continuamente e un ritornello, un’antica litania, divenuta ormai un ossessivo adagio: “paisceddasa!”. Il 2 novembre a San Sperate è festa grande, ricorrenza imperdibile per i piccoli in età scolare, che, muniti di zaini, affollano le vie del paese in cerca di leccornie.
Una consuetudine festosa, spensierata, quasi immemore della sua origine, della sua primitiva funzione, ma pur sempre un ritus “un ordine prescritto” dei rapporti fra la divinità e gli uomini, e, come tale, ligia ad un preciso cerimoniale. Un protocollo variato di pochissimo negli ultimi cent’anni, come ci informa la signora Giovanna Lisci, 72 anni portati benissimo. Ecco quindi che la raccolta, oggi come allora, si deve svolgere nelle ore mattutine, entro mezzogiorno, ad opera di bambini non ancora adolescenti, che di casa in casa ottengono dolci, frutta di stagione (in passato le noci, le melagrane e le mele cotogne la facevano da padrone) o piccoli doni, ma solo in seguito alla precisa richiesta de is paisceddasa: su questo punto non si concedono deroghe! E gli adulti? Mal tollerati, sono ammessi solo per accompagnare i più piccini, non ancora in grado di affrontare, da soli, una tale avventura.
La signora Lisci ricorda altri aspetti di questa usanza caduti però in disuso: “La notte a cavallo tra l’uno e il due novembre le campane non smettevano di rintoccare il don lento, s’adoppio, che era riservato normalmente ai funerali. Noi bambini – narra ancora Giovanna – eravamo spaventati dal quel suono sinistro che ci ricordava la morte e il lutto. Nelle case venivano accese i lanntiasa a ollu, lumini di canapa immersi nell’olio rigorosamente d’oliva, l’oro liquido delle campagne, il dono più prezioso per le anime, per le quali, ancora ai tempi di mia nonna (fine ottocento ndr), si lasciava la tavola imbandita con i resti della cena.”.
Il 2 novembre è invece oggi, per la comunità speratina, sostanzialmente festa di bambini, semplice e chiassosa, in apparente contrasto con la solennità del giorno in cui, in tutto l’orbe cristiano, si commemorano i cari estinti. Un oltraggio alla memoria dei defunti? Un’inosservanza dei precetti religiosi? Tutt’altro. Quest’antichissima tradizione è un relitto di remoti culti pagani in onore dei morti che la Chiesa seppe fare propri, dopo averli epurati degli aspetti più marcatamente idolatri. Se infatti non sfuggono le analogie con la ben più celebre e consumistica Halloween, con i bambini protagonisti di una questua porta a porta di dolci (questa volta notturna), va ricordato che anch’essa tradisce una vetusta origine, riportandoci ad una ricorrenza celebrata la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre, la cosiddetta «Samhain».
La vigilia di Samhain era la festività principale del calendario celtico, in cui il mondo, sospeso tra il vecchio e il nuovo anno, permetteva la comunicazione tra il regno dei vivi e quello dei morti. Quando i Romani entrarono in contatto con queste popolazioni, identificarono Samhain con la loro festa dei morti (Lemuria) che era però celebrata a maggio. Con la cristianizzazione, nel tentativo di far perdere significato alle usanze legate al paganesimo, nell’835 Papa Gregorio Magno spostò la festa di Ognissanti dal 13 Maggio al 1° novembre e nel secolo successivo venne istituita, il 2 novembre, la solennità in onore dei defunti. Ma, nonostante questi sforzi della Chiesa di Roma, rilevanti corrispondenze con i rituali precristiani si possono riscontrare, ancor oggi, nell’ambito di regioni con una radicata tradizione cattolica.
E’ il caso, tra le altre, del Messico in cui è previsto l’allestimento di altari, imbanditi con alimenti e bevande, in cui si ripropongono i due elementi costitutivi, la mensa e il cibo, di un antichissimo costume, prima pagano in seguita adottato dal cristianesimo delle origini, il refrigerium. Questo insieme di pratiche in memoria del defunto, era finalizzato ad ottenere il ristoro dell’anima, la sua beatitudine eterna e la sua intercessione (refrigerare, nel senso appunto di dare refrigerio, cioè sollievo dal punto di vista fisico e spirituale). Per adempiere al rito, i parenti si radunavano in spazi apposti connessi alle sepolture per consumare banchetti e libagioni di vino, latte, miele.
Poiché si riteneva che il defunto potesse prendere parte a questo pasto, le tombe venivano talora dotate di fori e tubi che consentissero l’introduzione di liquidi e cibo. Il degenerare però di questi pasti rituali in autentiche gozzoviglie e il legame troppo stretto con omologhe pratiche pagane, portò ben presto la Chiesa di Roma a proibire i conviti funebri, che tuttavia, in Sardegna, si protrassero più a lungo sino agli inizi del VII sec. d.C., come sembra accertato per Cornus. E in Sardegna echi di questo legame con l’aldilà sono ancora rintracciabili non solo nelle varianti onomastiche di questa ricorrenza (is Animeddas e Su ‘ene ‘e sas ànimas o su Mortu Mortu nel nuorese, su Prugadòriu in Ogliastra), ma anche nelle formule utilizzate per la questua delle golosità da parte dei bambini: “seus benius po is animeddas”; “mi das fait po praxeri is animeddas”; “seu su mortu mortu”; “carki cosa po sas anima”; “peti cocone”.
La relazione dunque tra morte e festa, cibo e sepoltura, non è mai venuta del tutto meno e sopravvive ancora, beffarda, nel riso gioioso dei bambini che con trepidazione attendono il 2 novembre per rinnovare, inconsapevoli, un voto ancestrale di amore e comunione con i cari estinti: is paisceddasa, appunto.
Emanuela Katia Pilloni