Cari lettori di Contusu, con questo primo articolo sulla grotta sacra di Su Pirosu, vogliamo dare il giusto risalto, pur nel nostro piccolo, ad una importante scoperta avvenuta nel 1968 nel comune di Santadi.
Parleremo del tempio ipogeo più importante nel bacino del Mediterraneo e delle vicissitudini legate alla sua scoperta. Buona lettura.
Ho sentito parlare per la prima volta della grotta di su Pirosu durante una serata a tema archeologico organizzata dall’associazione Itzokor di Cagliari.
La relatrice descriveva minuziosamente l’enorme mole di vasellame ritrovato all’interno di una cavità situata nel territorio di Santadi.
Poco tempo dopo, in occasione di un weekend esplorativo proprio nel comune dell’iglesiente, l’amico Giancarlo Sulas chiese se qualcuno del gruppo speleo fosse interessato ad entrare nella grotta di Su Pirosu.
L’ingresso alla cavità era vietato ma eccezionalmente, in occasione di un sopralluogo da effettuare con due geologi in previsione di una fruibilità turistica della grotta, saremo potuti entrare in numero limitato.
Ciò che mi colpì particolarmente fu l’elevata temperatura interna (circa 18°) e l’enorme presenza di materiale fittile ovunque.
Mi stupii il non aver sentito praticamente nulla in relazione alla scoperta di questo importantissimo sito archeologico, un vero tempio ipogeo di enorme interesse, non solo per il territorio di Santadi ma per l’intera isola.
Molti di voi che leggete probabilmente non ne avete mai sentito parlare.
La cavità venne scoperta il 26 giugno del 1968 dal gruppo speleologico A.S.I ed è senza dubbio la grotta più importante dal punto di vista dell’utilizzo cultuale non solo in Sardegna ma in tutto il bacino del Mediterraneo, in quanto la sala adibita a tempio era incontaminata.
All’ingresso, sono ben visibili delle strutture murarie costruite con tecnica megalitica, una delle quali, addossata alla parete della grotta, crea una sorta di camminamento obbligato che conduce al tempio ipogeo, a circa 120 metri dall’accesso e 95 di profondità.
La sala, delimitata da colonne naturali presenta il pavimento appiccicoso costituito da un misto di fango e ceneri animali, a prova del fatto che vi si praticavano rituali che prevedevano il sacrificio.
L’altare, una grossa stalagmite, si trova vicino alla parete nel fondo alla base della quale, tre vaschette alimentate dal fondo fornivano l’elemento cultuale dell’acqua.
A destra dell’altare, su una colata veniva acceso il focolare sacro.
Ai piedi di tale colata sono stati ritrovati diversi cumuli di oggetti accatastati, semisepolti dalle ceneri che costituiscono un vero e proprio tesoro: oltre 1600 vasetti utilizzati probabilmente per bere l’acqua sacra o come semplici doni alle divinità adorate, oggetti metallici di rame, bronzo e oro; vi erano armi (pugnali, spade, stiletti, cuspidi di lancia); oggetti ornamentali (bracciali, anelli, spilloni, fibule, grani di collana); utensili domestici (ciotole ceramiche, ollette globulari, lucerne decorate, falce, specchietto, un’asticciola); oggetti votivi e talismani (navicella, corna di animali ed elmi).
A causa del deposito di calcite sui reperti, non tutti sono stati recuperati e tra i più famosi, ritrovati ancora sull’altare, troviamo il tripode in bronzo, probabilmente di origine cipriota e il pugnale ad elsa gammata.
In base ai reperti, l’utilizzo della cavità va dal Neolitico alle fasi iniziali dell’età del Ferro in cui venne abbandonata improvvisamente per motivi ancora ignoti.
In basso il video, girato dalla Rai, purtroppo senza audio.
Si può vedere l’interno della grotta e i reperti che vi furono trovati dentro, durante una esplorazione del 1968.
Purtroppo la scoperta eccezionale ha avuto dei pesantissimi strascichi sugli scopritori.
L’articolo seguente, a firma di Angelo Pani, spiega nei dettagli ciò che accadde.
Santadi, tempio nuragico scoperto 50 anni fa
Su Benatzu, grotta di tesori e di veleni
Quando Jacques Balmat decise di scalare l’inviolata cima del Monte Bianco si fece indicare da un pastore valdostano, Jean Laurent Jordaney, il percorso migliore per tentare la salita.
L’impresa venne coronata dal successo l’8 agosto del 1786, Balmat si assicurò un posto nella storia dell’alpinismo e ricevette un premio di tre ghinee.
Il pastore gioì per l’impresa e non ebbe nulla da ridire sui meriti degli scalatori.
Né osò farsi avanti per pretendere la ricompensa.
Altri tempi, altra gente.
In terra sarda è andata diversamente.
Accadeva giusto cinquant’anni fa: alcuni speleologi che si trovavano a Su Benatzu, un pugno di case nei dintorni di Santadi, vennero informati da una persona del posto che, poco distante, c’era una caverna dove, a memoria d’uomo, non era mai entrato nessuno.
Era un invito a nozze.
I giovani raggiunsero la grotta, superarono il cumulo di pietre che delimitava l’ingresso e iniziarono l’esplorazione.
Poi si divisero e tre di loro raggiunsero una sala dove il pavimento era ricoperto di cenere e, illuminate dalla luce incerta delle lampade ad acetilene, apparvero cumuli di anfore.
Era il 24 giugno del 1968.
Gli speleologi avevano trovato un tempio nuragico ancora intatto.
Accanto a una colonna stalagmitica che fungeva da altare e a un focolare sacro erano disseminati 109 oggetti di bronzo, rame e tre pezzetti d’oro, poi 1500 vasi di ogni forma e dimensione.
I nomi dei tre (Sergio Puddu, Franco Todde e Antonio Assorgia) apparvero sui giornali e nessuno si fece avanti per contestare la paternità dell’impresa.
Ma più tardi, quando venne assegnato il premio previsto per gli scopritori, a intascare i soldi fu l’uomo che aveva indicato la grotta, non gli speleologi.
MISTERO
La vicenda del tempio ipogeo di Su Benatzu è una storia che si dipana in numerosi filoni.
C’è il mistero di una grotta che, abitata dall’uomo per lunghissimo tempo, venne improvvisamente abbandonata tremila anni fa.
Accadeva tra i secoli VIII e VII avanti Cristo, quando la civiltà nuragica, giunta al massimo splendore, si confrontava alla pari con le culture più progredite del mondo egeo.
Erano i tempi in cui i commercianti fenici che si erano insediati sulla costa e commerciavano pacificamente con le popolazioni dell’interno venivano scalzati dai cugini cartaginesi che avanzavano con la forza persuasiva delle armi.
I soldati di Cartagine si insediarono nel territorio di Santadi e costruirono una fortezza a Pani Loriga, appena tre chilometri dal tempio ipogeo di Su Benatzu.
Il frettoloso abbandono del santuario è in qualche modo legato a queste vicende?
LITE ACCADEMICA
La scoperta della grotta aveva aperto una finestra temporale che avrebbe consentito di raccogliere preziose informazioni ma quel varco venne subito chiuso.
Venne murato per i contrasti sul possesso dei reperti sorto tra due cattedratici: Carlo Maxia, docente di Antropologia all’Università di Cagliari, e Ferruccio Barreca, titolare della cattedra di Archeologia fenicio-punica nello stesso ateneo e da pochi mesi nominato Soprintendente reggente ai Beni archeologici.
La battaglia si concluse a Roma e a vincerla fu Barreca ma, per restare sul tema, fu una vittoria di Pirro. Perché i danni furono gravissimi: in attesa del verdetto bronzi e ceramiche erano stati rimossi in tutta fretta, senza che venisse effettuata neppure una ricognizione sommaria.
Era stata persa un’occasione unica e irripetibile per fare luce su uno dei periodi più importanti della preistoria sarda.
SPELEOLOGI BEFFATI
C’è poi una seconda storia, ed è altrettanto amara.
Il fatto che siano stati gli speleologi a fare l’eccezionale scoperta non è mai stato messo in dubbio.
I giovani, però, commisero l’errore di informare immediatamente non le “autorità competenti” ma il professor Maxia col quale già collaboravano.
Applicando alla lettera le norme di legge sulle scoperte archeologiche, il professor Barreca li escluse da ogni beneficio.
E in quel varco si inserì l’uomo che aveva indicato la grotta agli speleologi, Ezio Littarru, il quale inviò una lettera alla Soprintendenza autoproclamandosi scopritore del tempio nuragico.
Il sindaco e l’assessore anziano confermarono il suo racconto; lo stesso soprintendente Barreca, che per due volte in precedenza aveva attribuito il merito agli speleologi, la terza volta cambiò idea e, accettando la versione santadese, consentì a Littarru di incassare il premio di dodici milioni di lire.
L’equivalente di 54 mila euro attuali.
ACCUSE INFONDATE
Un altro filone riguarda le accuse rivolte agli scopritori (quelli veri) del tempio nuragico.
Dapprima erano malignità da bar («se hanno consegnato tutta quella roba, chissà quanto si sono messi in tasca»).
Presero corpo quando il soprintendente Barreca sostenne che tutti i danni erano stati provocati da persone digiune di archeologia che avevano rimosso “tutto il materiale” prima del suo intervento.
Era un addebito pesante rivolto a quanti (tra questi anche gli speleologi) avevano collaborato col professor Maxia.
Ma i fatti erano andati diversamente: l’antropologo aveva prelevato 275 reperti raccogliendoli in superficie mentre gli operai inviati da Barreca avevano raccolto 1.243 pezzi e, per portare via ogni cosa, avevano spaccato anche le colate stalagmitiche.
Ma le parole di un’autorità hanno sempre maggior peso e, da allora, la vulgata corrente (accolta anche da studiosi di chiara fama) dice che il santuario ipogeo venne saccheggiato e devastato dagli speleologi.
Angelo Pani
Nei prossimi articoli avremo testimonianza diretta di uno degli scopritori del santuario ipogeico, il Geologo Antonio Assorgia, che nel libro che andremo a recensire, “Il tesoro del Tempio ipogeo di Su Benatzu” (ed. Grafiche del Parteolla, 2019) ricostruisce i fatti relativi alla scoperta, e cerca di dare una visione ad ampio spettro sull’utilizzo cultuale della cavità, non basandosi unicamente sulla assettica analisi delle ceramiche.