Prima della diffusione della medicina industriale, attraverso le grandi corporation farmaceutiche e grazie allo sviluppo dei servizi sanitari pubblici e privati, l’uomo si curava comunemente con la cosiddetta medicina tradizionale. Quest’ultima, naturalmente, si differenziava a seconda dei luoghi e delle culture ma, in ogni parte del mondo, aveva caratteristiche comuni. Infatti si tratta di un sapere empirico che si evolve attraverso i secoli passando di padre in figlio o di madre in figlia ed è in strettissimo rapporto con la natura, di cui l’uomo fa parte. Qui voglio riportare alcuni esempi che si riferiscono alla realtà del Campidano di Oristano nella prima metà del XX secolo.
Per le coliche dei neonati si usava il tabacco, quello da fiuto, e si metteva nell’ombelico. (tombacu in su iddiu). Secondo la cultura popolare calmava il mal di pancia. Per lo stesso male si usava anche un panno imbevuto d’acquavite. Lo fregavano sulla pancia del bambino, scaldava la pelle, che peraltro doveva assorbire l’alcol, e il bambino si addormentava (frigatzionis de acuadrenti).
Per curare i foruncoli negli adulti, invece, si usava la malva sylvestris, pianta dai fiori rosa-viola molto comune in campagna (sa nabriscedda). Allora c’erano molte persone che soffrivano di foruncoli, probabilmente per motivi igienici. Si facevano bollire le foglie e si metteva la poltiglia sul foruncolo. Addirittura a volte si appoggiava direttamente la foglia intera sulla pustola.
Per le infreddature c’erano is fumentus de tzùcuru, fumi di zucchero: si metteva zucchero a scaldare nel braciere e si facevano respirare i fumi al bambino. Si scaldava pure la cuffietta prima di rimettergliela in testa.
Per gli adulti si usava un lavamano d’acqua calda con foglie di menta ed eucaliptus. Il malditesta si curava con is cucheddas: due cerchietti di tela, come due cerottini, imbevuti di olio, aceto e farina che si applicavano alle tempie. Era un rimedio del tutto femminile perché is cucheddas rimanevano attaccate grazie al fazzoletto che le donne portavano in testa.
Per i sintomi delle sbornie caffè amaro con limone. Per la bronchite cataplasmi di semi di lino, semin’e linu. Si comprava nelle drogherie, dopo cotto si metteva la poltiglia su panni di tela e si appoggiava sul petto e sulle spalle. Anche il vino cotto era usato per la cura della bronchite: specialmente il vino bianco; ci facevano cuocere dentro fichi secchi e, quando erano ben cotti, aggiungevano l’acquavite.
Lo bevevano e si mettevano a letto. Per scaldarsi non c’erano borse di gomma perciò si scaldavano le tegole, le tegole di Silì.
Dopo averle messe al fuoco le involgevano nella stoffa ed erano utili per riscaldare i piedi o il petto. Utili anche per i bambini nati prematuri: non essendoci incubatrici, li si faceva coricare nella tegola.
Il mal di denti si curava con un pezzo di sigaro. La medicina ufficiale proponeva il creosoto (dal gr. κρέας “carne” e σώζω “salvo”), che calmava il dolore ma si diceva frantumasse i denti: “s’at postu creosoto, totu sa denti dd’at arrogau”. Naturalmente i denti si estraevano senza anestesia, con le tenaglie.
Per le crisi emolitiche dovute al favismo, così diffuso in Sardegna, il rimedio può sembrare addirittura assurdo. Si faceva un bel fosso nel letame de su muntronaxu, ci si metteva dentro il paziente, specialmente ragazzini, e lo si ricopriva di letame fino al collo. Dopo varie ore lo tiravano fuori e lo mettevano a letto. Non c’è da stupirsi, comunque, se si considera che nell’Enciclopedia Italiana del 1932, alla voce favismo, si legge: “Sindrome emolitica acuta accompagnata da emoglobinuria e dovuta verosimilmente all’ingestione di fave e alla aspirazione delle rispettive emanazioni … la patogenesi è oscura”.
Quando uno soffriva di ipertensione e sentiva ronzii (frusias a conca) o cefalea o disturbi alla vista, più che i salassi del flebotomo si usavano is sanguneras, le sanguisughe. Queste si trovavano abbondantemente nelle zone dove l’acqua stagnava e si attaccavano alle gambe delle donne che lavavano i panni.
Allora le staccavano con una fettina d’aglio e le mettevano in una bottiglia di vetro scuro piena d’acqua. E lì vivevano, sempre più affamate; le vendevano perfino in farmacia.
Al momento di usarle si bagnava la coscia o il braccio del paziente con acqua e zucchero, poi si metteva la sanguisuga in un bicchierino e si applicava il bicchierino alla pelle della persona; la sanguisuga girava un po’, poi si attaccava e iniziava a riempirsi. Altro bicchierino altra sanguisuga. Quando erano piene, con l’aglio, le staccavano.
Ora, alcuni di questi rimedi sono efficaci, certi più certi meno; altri saranno forse inutili, altri ancora nocivi per la salute. Ma non si può dire, nel 2014, la stessa cosa dei farmaci ufficiali? Aldilà delle provocazioni, forse sarebbe opportuno che anche la scienza rivolgesse più attenzione alla tradizione. Quest’ultima è spesso sottovalutata, mentre la persone continuano a curarsi da sole, abusando di medicinali, anche nei casi in cui basterebbe un rimedio della nonna.
Articolo scritto per il settimanale L’Arborense