Una lapide posta nella via Canelles del numero civico 32 recante un epigrafe in spagnolo costituisce la “PERPETVA NOTA DE INFAMIA” per Donna Francesca Zatrillas oltre che per alcuni esponenti della nobiltà Sarda.
Siamo nella Cagliari spagnola della seconda metà del 1600, per la precisione tutto è il 24 Maggio 1665: Don Emanuele Gomez de los Cobos, Marchese di Camarassa viene nominato Vicerè succedendo al Don Bernardino Mattia di Cervellon.
Questa nuova nomina risultò essere l’ennesimo sopruso alla classe nobiliare Sarda ad opera dei cugini di Spagna. Il diffuso malcontento patì come primo immediato risultato la compattazione di un fronte unito attorno una delle figure della nobiltà Sarda allora maggiormente in vista quella di Don Agostino di Castelvì Marchese di Laconi. Figura carismatica raccolse attorno a se in breve tempo i favori della massima parte dei feudatari della nobiltà Sarda, dell’alta borghesia, del clero compresi gli alti prelati oltre che i rappresentanti delle città costituenti lo stamento reale.
Il partito così creato, assunta a premessa generale la propria fedeltà alla corona di Spagna, contestava la preclusione i Sardi di alcune delle cariche chiave quali ad esempio quella Viceregia, la reggenza la cancelleria, l’Arcivescovado di Cagliari e il Vescovado di Alghero.
Di contro l’entourage del viceré poteva contare sull’appoggio dei funzionari spagnoli di alcune (poche) famiglie patrizie oltre che del principe di Piombino comandante le galere, Don Antonio Pedrassa Commissario della Cavalleria e i gentiluomini al servizio del Viceré. Lo scontro “politico” ebbe modo di cresce alimentandosi di toni a tratti anche aspri per tutto il 1666, anno in cui il Vicerè in carica, il Marchese di Camarassa, decise di rimettere, tramite Don Antonio de Molina, al Reggente di Spagna e al Supremo Consiglio la questione.
L’iniziativa del Vicerè costrinse il Marchese di Laconi ad una contromossa: dopo aver fatto testamento (immaginate lo spirito d’animo) decise di presentarsi di persona presso la reggenza nell’intento di difendere i propri interessi e quelli della fazione da lui rappresentata. Per il Marchese di Laconi il pellegrinaggio in terra spagnola fu, dal punto di vista politico, un autentico fallimento però almeno riuscì ebbe salva la vita (date le premesse non era cosa affatto scontata) riuscendo a rientrare in terra Sarda.
Il vicerè Camarassa, nel frattempo, approfittando della mancanza della sua contropartita non mancò di sistemare alcuni pezzi importanti nella scacchiera politica Sarda: su consiglio della regina abilitò Don Artaldo di Alagon a presiedere, nonostante la sua giovanissima età, lo Stamento Militare invitando anche lo stamento ad approvare incondizionatamente il donativo.
I fatti presero una piega decisamente differente la notte tra il 20 ed il 21 Giugno 1668 il Marchese di Laconi cadde colpito da alcune archibugiate e finito con un coltello presso la Calle Mayor (via la Marmora); la morte del Marchese (definito dalle cronache come “attempato”) rendeva vedova la giovanissima Donna Francisca Zatrillas Marchesa di Sietefuentes (tenete a mente questo nome, ne sentirete riparlare …).
I seguaci la causa del Castelvì non ebbero dubbi nell’attribuire alle persone vicine al Vicerè il fatto di sangue e in risposta misero in atto una congiura che il 21 Luglio 1668 portò all’assassinio dello stesso Marchese di Camarassa mentre in carrozza percorreva la via dei Cavalieri (l’attuale via Canelles) di rientro dalla festa del Carmine. Dopo un veloce sopralluogo del sito dell’omicidio le autorità individuarono nelle persone di Jacopo Artaldo di Castelvì, Marchese di Cea cugino dell’estinto, il Marchese don Antonio Brondo, don Francesco Cao, don Francesco Portogues e Don Silvestro Aymerich i responsabili di questo secondo fatto di sangue; il periodo di concitazione che seguì diede modo ai presunti colpevoli di lasciare la città.
In meno di un mese per ben due volte era stato versato del sangue e purtroppo non fu che l’inizio…
La notizia di quest’ultimo assassinio presto arrivò alla corte di Spagna. L’interpretazione si volle dare non fu quella di gesto legato a vendetta “personale” bensì quella ben più grave di “lesa Maestà”.
I colpevoli l’assassinio il Marchese di Camarassa DEVONO IMMEDIATAMENTE PAGARE con la vita l’affronto fatto. La loro sofferenza, la loro espiazione DEVE ESSERE di monito per TUTTI, NESSUNO, dico NESSUNO può colpire il MIO rappresentante senza pensare di recarmi GRANDISSIMA offesa… Ah, dimenticavo….vedere anche di trovare dei “responsabili” per l’assassinio di quel Castelvì, e vedete di mettete a tacere quei nobilastri schiamazzanti sardignoli…
E’ un gioco di immaginazione però voglio immaginare fossero esattamente queste le parole che rimbombavano nella testa, che fischiavano nelle orecchie di Don Francesco Tuttavilla di San Germano quando, il 26 Dicembre 1668, arrivò a Cagliari come nuovo Vicerè.
Intransigente fino alla ferocia non mancò di eseguire a fondo in maniera metodica e fredda il volere del proprio sovrano percorrendo una duplice iniziativa: purgare da ogni accusa il Marchese di Camarassa, scovare e punire i fuggiaschi.
La Reale Udienza fu nuovamente convocata allo scopo di dare chiarezza l’omicidio del Castelvì, il giudice Don Giorgio Cavassa ebbe modo di valutare nuove interessanti prove che incastravano Don Silvestro Aymerich. La nuova ricostruzione dei fatti, rielaborata grazie alla confessione (sotto tortura) di tal Francesco Cappai, servo dell’Aymerich, dimostrava che l’omicidio sarebbe stato architettato dallo stesso Aymerich e dalla sua amante, la vedova di Agostino Castelvì: Donna Francesca Zatrillas. Il processo terminò con la condanna in contumacia a morte dei due amanti (nel frattempo avevano lasciato la Sardegna alla volta di Nizza).
Parallelamente per bando del 23 Maggio 1669 venivano citati don Giacomo Artaldo di Castelvì, don Antonio Brondo Marchese di Villacidro, don Francesco Cao Junior, don Francesco Portugues, don Silvestro Aymerich, don Gavino Grixoni e i fratelli Gluani a comparire davanti al viceré per rispondere delle accuse elevate. Ugual bando fu dato il 7 Giugno 1669 contro donna Francesca Zatrillas. Spirati i termini fu pronunciata in contumacia la sentenza per cui come rei di alto tradimento e lesa maestà in primo capite e come perturbatori della quiete pubblica erano condannati alla pena capitale ed alla confisca dei beni con facoltà a chiunque di ucciderli. Si sentenziava anche che “le case loro, compresa quella del mercante Antioco Brondo donde erano partite le schioppettate, venissero demolite passandovi l’aratro e il sale e vi fossero apposte lapidi con iscrizioni infamanti..”.
Con altro proclama pari data si proibiva ai sardi di aver alcun rapporto con costoro pena la vita, promettendo in pari tempo 6.000 scudi e il perdono di qualsiasi delitto per sé e altri dieci compagni a chi li avesse consegnati vivi alla giustizia e 3.000 scudi se fossero consegnati morti. Tutti gli abitanti di qualunque villa ove essi entrassero fossero tenuti ad ammazzarli. Finiva il proclama con una lisciatina di circostanza ai sardi che si erano mantenuti fedeli al sovrano in mezzo a tante turbolenze.
Iniziò quindi la caccia, dopo numerosi tentativi, attraverso l’arma dell’inganno e della corruzione con l’aiuto di alcuni esponenti la nobiltà Sarda (tra tutti Don Giacomo Alivesi) i colpevoli furono dapprima convinti al rientro in terra Sarda e poi catturati (tutti ad eccezione di Donna Francesca) presso Vignola, l’isola rossa. Le fasi dell’arresto sono abbastanza concitate, il Cao, il Portugues e l’Aymerich vengono trucidati, solo il Castelvì ed un suo servo vengono catturati “vivi” e condotti a Sassari. Le teste dei tre caduti vengono vuotate e riempite di sale ed infisse su delle picche. Le picche così addobbate apriranno un macabro corteo che da Alghero si svolgerà per mezza Sardegna fino a Cagliari giungendovi dopo 12 giorni il 9 giugno.
Per ordine del Vicerè il corteo attraversò a suon di tamburi la città secondo grande spiegamento di forze, la cavalleria precedeva il carnefice a cavallo con un tridente in cui erano infilzate le teste a seguire il Marchese di Cea avvilito, a piedi, con gli abiti logori e il servo Francesco Cappai. I prigionieri furono rinchiusi nella torre dell’Elefante. Dopo sei giorni di prigionia nell’attuale Piazza Carlo Albero il boia fece il proprio lavoro, il 15 Giugno cadeva la testa di Jacopo Artaldo di Castelvì, il Cappai fu invece arruotato vivo.
Le teste dei quattro coinvolti nella congiura furono dapprima esposte poi su una tavola di legno nel luogo ove fu consumato l’omicidio e per poi essere appese alla torre di San Pancrazio ove restarono 17 anni. Furono rimosse solo il 1688 per grazia sovrana su petizione del parlamento.
Donna Francesca Zetrilla, passo il resto dei suoi giorni rinchiusa presso un convento a Nizza.
Ed infine, al termine di questa storia, ecco la nota di perpetua infamia ..
PARA PERPETVA NOTA DE INFAMIA DE QVE FVEREON TRAYDORES DEL REY
NVESTRO SENOR DON JAIME ARTAL DEL CASTELVI QVE FVE MARQVES DE
CEA DONA FRANCISCA CETRILLAS QVE FVE MARQVESA DE SIETEFUENTES
DON ANTONIO BRONDO DON SILVESTRE AYMERICH DON FRANCISCO CAO
DON FRANCISCO PORTVGVES Y DON GAVINO GRIXONI COMO REOS DE CRIMEN
LESE MAGESTAD POR HOMICIDAX DEL MARQVES DE CAMARASA VIRREY DE
CERDENA FVERON CONDENADOS A MVERTE PERDIDA DE BIENES Y DE
HONORES DEMOLIDAS SVS CASAS CONSERVANDI EN SV RVINA ETERNA
IGNOMIA DE SV NEFANDA MEMORIA Y POR SER EN ESTO SITIO LA CASA
DE DONDE SE COMETIO DELICTO TAN ATROZ A VEYNTE Y VNO DE JYLIO
DE MIL SEISCIOENTOS SESENTA Y OCHO SE ERIGIO ESTE EPITAPHIO
A presto,
Andrea