Abbiamo avuto modo di pubblicare un articolo sulla processione dei defunti. Ogni zona della Sardegna riporta delle differenze in merito alla stessa leggenda. Vediamo cosa si racconta in Gallura intorno a La Reula, la processione dei defunti.
Si racconta che le anime dei morti, sepolti in cimitero o nelle cripte presenti in passato in quasi tutte le chiese, andassero in giro la notte per fare penitenza.
Vestiti con una lunga tunica bianca vagavano per le viuzze dei paesi, scacciando al loro passaggio il buio della notte con la luce tremolante delle candele che tenevano in mano.
Se sfortunatamente ci si imbatteva in questa terribile processione, poteva anche capitare di vedere tra le anime in movimento lo spirito di un vivente.
Era un cattivo auspicio in ogni caso ma se la processione si muoveva lungo una strada in salita colui il quale lo spirito vagava fuori dal corpo, sarebbe morto entro l’anno, mentre se la processione si muoveva in discesa, avrebbe “solo” patito una lunga malattia.
L’ultimo della fila dei morti veniva sopranominato “lu zoppu“, il quale non riusciva mai a raggiungere le altre anime correndo quindi il rischio di non completare la sua penitenza. La regola infatti stabiliva che la processione non potesse partire prima di mezzanotte mentre il rientro doveva necessariamente avvenire all’alba.
Il malcapitato che incontrava sa reula poteva ritenersi fortunato se se la cavava solo con un pestaggio, portando i lividi (li pizzichi di li molti) per diverso tempo.
L’unico modo per scampare alla furia dei defunti era quella di riconoscere tra loro un parente o un compare il quale avrebbe consigliato di stare sul ciglio della strada, possibilmente sopravento e a monte della processione in modo da non sentire il fetore dei morti e non essere notato da questi.
Per complicare la cosa, avrebbe dovuto farsi il segno della croce e recitare le dodici parole di San Martino, avendo cura di non sbagliare.
Talvolta la visione di questi spiriti inquieti causava nel malcapitato uno spavento tale da non riuscire più a proferir parola.
La cura popolare consisteva nel tagliare in croce quattro ciocche di capelli: una dalla nuca, una dalla fronte, una dalla tempia destra e una dalla tempia sinistra.
Si doveva quindi pulire un tratto del focolare in cui mettere i capelli tagliati per essere bruciati.
Una parte della cenere così ottenuta si poneva dentro un bicchiere con dell’acqua che la persona ammutolita doveva bere in modo da essere liberata dalla paura e poter quindi raccontare la terribile esperienza.
Si narra così la storia di un commerciante di bestiame chiamato Nicola Pitzoi che attraversando a tarda sera uno stazzo chiamato Ussaglia, venne invitato dal padrone a passare li la notte.
Nicola accettò chiedendo però che gli venisse dato un materassino per dormire su un bancone nei pressi dell’ingresso, in modo tale che, dovendo partire la mattina molto presto per far ritorno dalla figlia malata, non avesse a disturbare gli abitanti della casa.
Dopo aver spento la candela, mentre pian piano scivolava nel sonno, si sentì più volte tirare le coperte. Spaventato sellò il cavallo e puntò in direzione del suo stazzo. Per giungervi doveva attraversare la vecchia chiesetta di San Pantaleo e una volta giunto nei pressi del cimitero vicino venne circondato da sa Reula.
I morti afferrarono la briglia del cavallo e lo trascinarono verso il cimitero ma Nicola mantenne il sangue freddo, nonostante lo spavento, ed iniziò a recitare “li dodici parauli” e spronando il cavallo riuscì a districarsi fuggendo al galoppo, seguito dagli spettri.
Il cavallo attraversò il torrente di Sant’Andrea, mentre la processione inseguitrice si dovette fermare, non essendo in nessun modo in grado di attraversare il corso d’acqua.
Nicola si voltò un’ultima volta riconoscendo tra gli spettri un compare di battesimo che diceva ai compagni: “lasciamolo andare, è atteso in casa perchè ha una bambina malata“.
Il cavallo lo riportò, accasciato sulla sella ed in preda a febbre e brividi, a casa dove la sorella ed il cognato lo aiutarono a scendere.
Gli tagliarono i capelli per poi bruciarli e farglieli bere, allontanando così lo spavento. Nicola si riprese raccontando l’esperienza appena vissuta.