L’Accabadora (ucciditrice) non era un’assassina, perchè uccideva solo per scopi umanitari. Il termine indicava la persona addetta a facilitare il trapasso ai moribondi. In Barbagia questo compito era affidato alle donne, in Campidano agli uomini, i quali venivano quindi chiamati Accabadoris.
In rete è difficilissimo trovare informazioni riguardanti questa figura leggendaria relativa alla tradizione sarda. L’unico documento che ho trovato è tratto da un articolo apparso sulla stampa.
“La porta si apre e il moribondo dal suo letto d’agonia vede entrare la femmina accabadora. Lei è “l’accoppatrice”
Tanto per rendere comprensibile il termine. È vestita di nero e una delle sue gonne è sollevata a coprirle il viso. E’ arrivata l’ora. Lui da quel momento sa che l’abbraccio che avrà da quella donna sarà l’ ultimo della sua vita. C’ è un tempo remoto, che sopravvive nelle memorie anche recenti degli abitanti della Sardegna, in cui tutto questo è assolutamente plausibile.
Ad inseguire il filo delle prove documentali o a sviscerare le etimologie c’è da diventar matti. Accabadora dallo spagnolo acabar, terminare o ancor più dal sardo accabaddare può significare incrociare le mani al morto, o ancora mettere a cavallo e quindi far partire. Guai a chi, con esili competenze di antropologia imparaticcia, si avventura, come me, nei misteri millenari della Sardegna. Qui ogni storia, diceria, formula magica, canzone o parola, si muta e viene interpretata diversamente spostandosi anche solo di cento metri. Dirò solamente che nessuno mi ha negato di aver sentito parlare di una professionista della morte. Una donna capace di risolvere i casi disperati, soffocando, strangolando, spaccando il cranio o l’ osso del collo, a seconda delle latitudini ove operasse.
Alessandro Bucarelli, Medico Legale e antropologo criminale dell’ Università di Sassari ha studiato molto e scritto altrettanto sulle accabadoras. A modo loro queste donne conoscevano perfettamente l’ anatomia umana, erano “praticas”, levatrici curatrici e anche capaci di uccidere con metodo e precisione: “Ne parlano ovunque, non può essere un mito, una fantasia dovuta all’isolamento.
Gli ultimi episodi certificati che si conoscono sono due. Uno a Luras nel 1929 e uno Orgosolo nel 1952. A Luras, in Gallura, l’ ostetrica del paese accabbò un uomo di 70anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario.”
Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la vecchia nerovestita, tra i meno vecchi c’ è chi come Egidiangela Sechi ha voluto approfondire sul campo.
Ha dedicato una parte della propria tesi di laurea sull’ eutanasia a mezzo di un giogo da buoi, questa pare fosse pratica usuale a Sindia, suo paese natale nel Nuorese: “avevo preparato un questionario sui rituali legati alla morte e l’avevo sottoposto a decine di donne anziane del posto, poi è saltata fuori a storia del giogo e ho dovuto ricominciare da capo inserendo una nuova domanda sulle accabadoras, tutte sapevano, ma non me ne avevano parlato semplicemente perché non glielo avevo chiesto”.
Con grazia e levità Egidiangela mi istilla il dubbio che al suo paese, attraverso il giustificativo di un rito purificatore, in passato fosse facile che al moribondo si desse anche un aiutino più concreto per passar a miglior vita. L’appuntamento con l’esperto di queste cose è davanti alla chiesa.
Mi basta scambiare le prime parole con Michelangelo del Rio, il sacrestano del defunto parroco di Sindia, per capire che da quelle parti la morte è ancora profondamente intrisa con il quotidiano. Noi metropolitani, rifletto, ci liberiamo di ogni pensiero oltre la vita in quelle discariche di rifiuti umani a perdere che sono le moderne periferie-cimitero.
Indifferenti agglomerati che sono identici alle periferie di ancora viventi. A Sindia, al contrario, fino agli anni 80 era possibile affittare prefiche professioniste specializzate in lamentazioni funebri a soggetto. Le “attittadoras” nutrivano il morto in partenza con le loro lacrime. Erano “allattatrici” perché solo chi sa dare la tetta a un bimbo per nutrirlo, è capace della dolcezza estrema di un trapasso assistito. Ancora mi si racconta di teschi sottratti al vecchio cimitero per seppellirli all’entrata dell’ ovile, maniera efficace per fermare la moria del bestiame: “poi comunque lo rimettevano al posto suo”.
Mi si spiega come si apparecchia la tavola per la cena ai propri defunti tra il primo e il due novembre, quando le campane suonano a morto per tutta la notte senza fermarsi mai.
Io voglio saper delle accabadoras. Il sacrestano la prende alla larga, poi finalmente dopo un lungo giro tra magia e folklore, ci arriva. Si va in cantina e finalmente saltano fuori due esemplari di “giuale”. Il giogo che Egidiangela mi aveva descritto come elemento clou dei suoi studi. Era considerato un oggetto quasi sacro, chi lo rubava veniva giudicato peggio che un omicida, aveva tolto a una famiglia il più importante strumento di lavoro.
Chi aveva una lunga agonia si pensava in crisi di coscienza per quel tipo di delitto e quindi per farlo finalmente morire in pace occorreva passare un giogo sul suo corpo. Poco dopo il rito pare che se ne andasse sereno.
Michelangelo non si fa più pregare: “L’ ultimo su giuale è stato fatto a un uomo che conoscevo bene negli anni 80, lo avevano trovato ferito in campagna l’avevano vegliato per otto notti in agonia, fino a che qualcuno disse che se non moriva forse aveva rubato un giogo…”
Il rituale chi lo sa non lo dice, poi non ne parlano volentieri, hanno paura, ma il giogo sterminatore incombe nelle dicerie del paese: “Noi si sa che il giogo che sta in tale casa è stato messo a quella tal persona. Porta il nome di chi ha accompagnato alla morte.” La malizia dell’interesse per un’eredità ha il sopravvento sulla sacralità di questa tradizione, ammessa e rinnegata allo stesso tempo, in un episodio di eutanasia interessata che qui tutti conoscono: “Una quarantina d’ anni fa in una casa non lontana da qui era arrivato un ospite – racconta ancora Michelangelo sotto il ritratto di un abate servo di Dio al centro del suo salottino mistico – era un signore della provincia di Sassari, compare d’olio santo di un nostro paesano. Aveva un carro, una casetta, stava bene, non era nemmeno vecchio, ho trovato il suo atto di morte nell’ archivio parrocchiale.
Non era loro parente, ma aveva tenuto un figlio a cresima. Arriva qui che era già moribondo. Poco dopo in tutto il paese sa che è morto, si chiamava Ziu Flore. Suonarono le campane a morto e l’avevano composto sul tavolo all’ingresso di casa, ma i bambini si accorgono che respirava ancora. Viene il medico condotto accende un fiammifero sotto le narici, respirava davvero! Il dottore lo fa riportare a letto e sgrida la famiglia, chiede se sono impazziti quello è ancora vivo. La padrona di casa però aveva una sorella che cacciava i denti, faceva la levatrice e …le altre cose. Dopo una mezz’ora le campane suonarono nuovamente a morto. Questa volta, dopo il passaggio dell’accabadora si era sicuri che non avrebbe più respirato.”
Michelangelo muove i due gioghi di famiglia, mi spiega il rituale; al malato veniva passato il giogo lentamente sulle gambe, sul petto, si recitavano le formule che dovevano alleviare la sua coscienza dal fardello pesante del giogo rubato che gli impediva di morire in pace. Alla fine gli veniva sollevato il capo e il giogo gli veniva passato dietro alla nuca da due assistenti che lo reggevano agli estremi.
Pare che, finalmente rappacificato con gli antichi codici, la vittima morisse di li a poco. Certo che nella simulazione è sin troppo chiaro che, in quella circostanza e su una persona già soffrente e debole, un colpo ben assestato di quella trave sagomata, di legno massiccio e ben pesante, su una vertebra del collo sarebbe scuramente da considerarsi fatale.
Ora siamo in Gallura, Pier Giacomo Pala direttore del museo etnografico di Luras ha impiegato 12 anni per ritrovare l’ unico esemplare di “su mazzolu”, l’ attrezzo in legno nodoso e selvatico di olivastro che da quelle parti la femmina accabadora usava per sfondare il cranio ai suoi pazienti: “Era il 1981, l’accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era stato la casa sua. Un vecchio mi aveva parlato di quella donna, ma non si ricordava il nome, ho fatto tutte le ricerche possibili sulle levatrici che operavano a Luras fino a prima dell’ultima guerra e alla fine ho capito di chi si trattasse.”
Il dottor Pala sostiene che il suo mazzolo sterminatore, di cui va molto fiero, sia senz’altro l’ultimo ancora in giro. E’ immortalato in tutte le foto del museo. Bello, anche lui pesante, di legno lucido che sembra ferro. Lo espongono in un simpatico diorama, è appoggiato sul cuscino del lettone di una tipica camera gallurese. Il letto, il cuscino, su mazzolu… e l’ accabadora aveva tutto quello che le serviva per la sua utile bisogna.
E’ in Barbagia, nella Sardegna più restia all’ onta della civilizzazione, che l’accabadora ha un modo di operare che la rende ancora più vicina a una madre. E’ a Orgosolo, che il professor Bucarelli ci aveva detto, negli anni 50 ancora qualcuno apriva le porte di casa all’accabadora, qui è figura di mitologie dimenticate, quando operava era come se volesse risucchiare la vittima attraverso la matrice che l’ha generata.
A Desulo c’ è un proverbio: “Canno lompia est s’ ora, benit s’accabadora” Quando è il momento lei arriva: “Se qualcuno era malato e soffriva molto la famiglia chiamava questa donna che andava e lo strangolava, la pagavano cinque litri di grano o come potevano- è la trascrizione del racconto di Maria Fiori classe 1902. E’ morta nel 96, ma è stata una delle poche testimoni dirette del rito.
L’ accabadora non era benvoluta, ma neppure odiata, nessuno comunque la frequentava perché ammazzava la gente. Era indispensabile perché non c’ erano le medicine per non far soffrire.” E dai ricordi di chi vive da quelle parti sembra che la sterminatrice di moribondi abbia lasciato quasi un fondo di nostalgia per come compiva quell’atto estremo suscitando terrore ed erotismo incollati assieme.
La donna si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e cominciava a cullarlo come fosse un bambino. Gli cantava la stessa ninna nanna che lui si sarà sentito cantare dalla propria madre, quando finalmente l’agonizzante torna infante lei lo uccide con la forma più sensuale di strangolamento. Se non basta lo soffoca con un cuscino.
Antonangelo Liori, nativo di Desulo, ha ricostruito storie di simili abbracci letali in anni di ricerca in Barbagia e più in generale nell’area del Nuorese. Ha variamente scritto su demoni, miti e riti della Sardegna: “Ho interrogato una signora di Belvì, molto anziana morta un paio di anni fa, mi ha raccontato di queste donne che uccidevano per mestiere. In particolare mi ha parlato di un’ accabadora nota a tutti come il corvo, perché vedova.
Quando questa nel 1922 si prese tra le gambe il figlio di un certo Antioco, con cui la sua famiglia era in lotta per una vecchia faida, la signora compose una canzoncina per ricordare l’evento. ”I versi sono crudi e intrisi di sete di vendetta: “su figiu ‘e antiogu mortu in coa ‘e crobu tinni etto ‘e fogu de fogu tinne etto e a s’Iferru t’imbetto”. “il figlio di Antioco è morto nel grembo del corvo, ti ricoprirò di fuoco, di fuoco di ricopro, e ti aspetto all’inferno”. Catena di sangue eterna e spietata che nemmeno la sterminatrice riesce a spezzare. L’ odio non ammette attenuanti, alla donna sarà sembrata una morte troppo invidiabile, quando ha visto l’accabadora che strozzava quel nemico di famiglia stringendolo tra le cosce.”