In Sardegna, il Tribunale dell’Inquisizione fu istituito nel 1492, con la nomina del primo inquisitore del regno di Sardegna, Sancho Marin, da parte dell’inquisitore generale Tomás de Torquemada. La sede del tribunale era a Cagliari.
Nel 1563, la sede del tribunale fu spostata da Cagliari a Sassari, sotto la guida dell’inquisitore Diego Calvo. Il tribunale fu alloggiato nel castello aragonese, costruito nel Trecento e distrutto nel 19° secolo. Nel castello vi erano la residenza degli inquisitori, le prigioni del Santo Ufficio, la sala di tortura e si svolgevano i processi.
Competenze del tribunale
Il tribunale dell’Inquisizione aveva competenza esclusiva sulla questione dell’ortodossia della fede e combatteva le infiltrazioni giudaiche e islamiche, oltre alla lotta contro l’eresia protestante. Il trasferimento del tribunale da Cagliari a Sassari fu motivato dalla necessità di contrastare l’ingresso di eresie protestanti nei porti settentrionali della Sardegna. L’inquisitore spagnolo Diego Calvo si adoperò con zelo.
Da una relazione del gesuita spagnolo Cristoforo Truxillo, sappiamo che nel 1566, l’inquisitore aveva instillato un terrore incontenibile in tutta la Sardegna con un “spettacolo feroce che durò due giornate intere“, durante il quale, secondo Raimondo Turtas, “oltre a 70 condanne più o meno gravi, il pezzo forte era stato fornito da ben 13 condannati al rogo“. Padre Truxillo specifica che l’inquisitore “ha fatto dimostrazioni severe contro persone superstiziose e fatue“.
Nonostante ciò, l’accurata analisi condotta da Angelo Rundine e Tommaso Pinna sui processi per stregoneria tenutisi in Sardegna dal Tribunale dell’Inquisizione durante circa un secolo e mezzo tra la metà del 16° secolo e la fine del 17° secolo, mostra che in 165 casi di stregoneria e magia, relativi a 105 streghe e 60 stregoni, non fu mai inflitta la condanna all’esecuzione col rogo o ad altra pena capitale. Le sanzioni erano sempre miti e consistevano prevalentemente nella confisca dei beni o nella condanna a qualche anno di carcere o all’esilio perpetuo dal proprio paese.
Il processo contro Caterina Curcas
Un processo di estrema importanza fu intentato nel 1577 dall’Arcivescovo turritano Lorca, agendo come inquisitore, contro Caterina Curcas di Castel Aragonès, i cui atti sono conservati nel libro 782 dell’Inquisizione presso l’Archivo Historico Nacional di Madrid.
Durante le udienze, Caterina Curcas confessò di aver incontrato il diavolo, che le apparve in diverse ore della notte, con vestiti che cambiavano colore, da rosso a giallo a nero, e di aver avuto rapporti con lui. Il diavolo la condusse nella “valle dell’inferno”, un bosco misterioso probabilmente situato tra Castelsardo e Sedini, dove si riunivano più di 200 persone e demoni, sia maschili che femminili, che offrivano un grande banchetto e si dedicavano a danze e festeggiamenti.
Il diavolo, innamoratosi di Caterina Curcas, si chiamava Furfureddo e le impose di abiurare la fede cattolica.
Caterina Curcas fu dichiarata colpevole e condannata a un anno di carcere presso l’ospedale di Sassari e all’esilio perpetuo dalla diocesi di Civita-Ampurias.
La condanna di Angela Calvia e Anna Collu
Un’altra strega della zona, Angela Calvia di Sedini, fu processata nel 1578. Confessò i suoi turpi rapporti con il diavolo Corbareddu, vestito di verde e nero, ma a volte nudo.
Il tribunale dell’inquisizione la condannò a tre anni di detenzione, alla confisca dei suoi beni e all’esilio a vita da Sedini.
Nello stesso 1578, presso il tribunale dell’inquisizione di Sassari, ebbe luogo il processo contro una strega di Oristano, Anna Collu. L’inquisitore Corita la accusò di aver cercato tesori con l’aiuto del diavolo.
Dopo un primo diniego da parte dell’imputata, le torture nelle “camere di tormento” portarono ad una confessione: con alcune invocazioni, Anna Collu e due chierici, insieme ad un’altra donna, ottennero che comparisse un’ombra all’interno di una fossa scavata appositamente. L’ombra richiese il “digiuno del diavolo”.
Dopo questa pratica, le due donne, ora nude, si recarono con i chierici presso la fossa. Qui il diavolo in persona richiese di avere rapporti con le due donne di Oristano in cambio di sette “ollas” piene di soldi.
La strega fù condannata alla riconciliazione con la fede cristiana, alla confisca dei beni e a tre anni di carcere.
I tesori nascosti
Le pratiche stregonesche non erano esclusive delle donne, anche se queste costituivano la maggioranza (circa il 65% dei casi).
Nel 1577, a Oristano, incontriamo un personaggio strano, Formezino Atzeni, che fu denunciato alla Santa Inquisizione. L’inquisitore, l’Arcivescovo Lorca, scoprì che Atzeni, in combutta con altre persone, sia laiche che religiose, cercava tesori con l’aiuto del diavolo.
In un’occasione, un frate che accompagnava Atzeni, seguendo le indicazioni di un libro ovviamente magico, impugnò tre verghe che lo avrebbero condotto al tesoro. Individuato il luogo, il gruppo di Atzeni fu sorpreso nel vedere il diavolo apparire in forma di corvo, armato di spada, che indicò il punto del tesoro. Tutti vendevano la loro anima al male e in cambio ricevevano “dodici parole” per trovare i tesori.
Atzeni fu condannato a rinunciare al patto malvagio e subì una pena pecuniaria e spirituale.
La famosa Julia Carta
La storia più dettagliata di una strega in Sardegna è quella di Julia Carta, nativa di Mores ma residente a Siligo nel tardo Cinquecento. Negli Atti processuali, fortunatamente integri e ritrovati a Madrid, viene narrata la storia di una strega che costituiva un punto di riferimento temuto e ricercato presso la comunità di Siligo.
Julia Carta era una “hechizera“, una fattucchiera, che aveva una conoscenza eterodossa delle cure per le malattie e della produzione di amuleti per proteggere dal male e dalla giustizia degli uomini, ovvero dalle forze dell’ordine.
Con le confessioni di Julia Carta, estorte durante un breve soggiorno nella camera della tortura senza che venisse effettivamente sottoposta al tormento, entriamo nel mondo di una strega sarda del Cinquecento, erede delle conoscenze magiche e medico-terapeutiche della nonna materna, che combinava pratiche di medicina naturale con credenze magiche e comportamenti eterodossi in campo religioso e sociale. Questa donna, famosa per le sue capacità magiche, catturò l’attenzione del parroco di Siligo, Baltassar Serra y Manca, commissario del Santo Uffizio.
Il 18 ottobre 1596, Julia Carta viene arrestata presso la casa del padre a Mores e successivamente trasferita alle prigioni dell’Inquisizione a Sassari. Inizialmente viene accusata di aver creato amuleti perniciosi e di aver causato la morte di Maria Virde a Siligo attraverso un incantesimo.
Inoltre, la strega viene accusata di eresia luterana per aver espresso opinioni non convenzionali sulla confessione.
Il parroco di Siligo ha continuato a raccogliere prove contro di lei e, il 21 novembre, una nuova accusa venne presentata, suddivisa in vari punti. Il procuratore fiscale del Santo Uffizio, Thomàs Pitigado, tra i vari capi d’accusa, ha dichiarato: “La accuso e le imputo come colpa principale il fatto che una volta è andata a praticare suffumigi su una malata e, avendole portato alcune braci accese, la detta Julia Carta ha gettato su quelle braci qualcosa che le ha spente all’istante“.
Tratto da “Majàrza, ossia libro sopra le streghe di Sardegna a partire dalla villa di Bidonì, sulle rive del fiume Tirso“. Di Annarita Agus e Raimondo Zucca.