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Le navi nuragiche

Il contesto storico e  la ricostruzione di due modelli in scala di navi nuragiche

Il centinaio di piccole riproduzioni di scafi bronzei, di forma e dimensioni varie ma tutte terminanti con una testa di animale a prua, ritrovate largamente nell’Isola ed in piccolo numero anche in Etruria e nel Lazio, costituiscono un dato inoppugnabile di come le genti nuragiche avessero consapevolezza del mare e della navigazione.
Questo scrive Fulvia Lo Schiavo nel libro La battaglia del Mare Sardonio, a cura di Bernardini, Spanu e Zucca, pubblicato a corredo della mostra di eccezionali reperti archeologici del primo e secondo millennio a.C. allestita dieci anni fa nell’Antiquarium Arborense di Oristano.
Pur se il tema che presta il titolo alla mostra (e al libro) si riferisce alla famosa battaglia navale in cui si confrontarono i Focei di Alalia, in Corsica, e una coalizione di Cartaginesi ed Etruschi, si è colta quell’occasione per presentare gli ultimi studi sull’argomento della navigazione antica in Sardegna, producendo, forse per la prima volta, una visione generale che inquadra anche la marineria Sarda nella tormentosa storia del Mediterraneo antico, e che è oggi punto di riferimento per ogni ulteriore studio sull’argomento.
Fondamentali i contributi di Fulvia Lo Schiavo (allora Soprintendente Archeologico di Sassari e Nuoro) sull’inquadramento storico, di Marco Bonino sulla cantieristica navale nuragica e di altri luminari delle Soprintendenze e delle Università (tra i quali Piero Bartoloni, Rubens D’Oriano e Raimondo Zucca) sulle questioni più vicine al tema principale della mostra.

Navi nuragicheLe navicelle nuragiche di bronzo, di eccezionale pregio estetico e tecnologico, hanno avuto forse nella loro eleganza artistica e nel fascino della loro linea stilizzata il peggior nemico: per mezzo secolo sono state orgogliosamente considerate come uno dei simboli della civiltà che le ha prodotte e dell’intera Sardegna, ma ne è stato talvolta trascurato lo status di reperto archeologico.
Il quadro storico oggi disponibile, pur lacunoso e in evoluzione, consente comunque di tracciare le principali linee per la comprensione di un fenomeno come quello dell’arte del navigare nella Sardegna antica, e di proporre finalmente una datazione sulla produzione di questi bronzetti condivisa da buona parte del mondo accademico, che li colloca tra il Bronzo Finale e la Prima Età del Ferro.

Le navicelle bronzee sarde riprodurrebbero perciò, pur coi limiti dovuti a una marcata stilizzazione, dei modelli di vere e proprie navi che hanno solcato i mari e i fiumi tra il XII e l’VIII secolo a.C. (o ancor prima, nel caso rappresentassero modelli già in uso da tempo al momento della riproduzione miniaturistica) con caratteristiche indiscutibilmente legate alla civiltà nuragica.
Come e più che per altre civiltà mediterranee, si hanno perciò reperti che testimoniano l’attività marinaresca del popolo dei nuraghi. Altre evidenze,  pur meno dirette, sono dovute al ritrovamento in più contesti nuragici di attrezzi di carpenteria come seghe e asce, del tutto simili a quelli attribuiti, per altri popoli mediterranei coevi, alla cantieristica navale.

La tecnologia nei cantieri navali

Secondo gli studi del già citato Marco Bonino e di Anna Depalmas dell’Università di Sassari, la tipologia costruttiva degli scafi è riconducibile a quella delle “sutiles naves”. Si tratterebbe cioè di navi “cucite”, ovvero imbarcazioni nelle quali veniva realizzata per prima la struttura esterna, cui si aggiungevano poi le strutture interne e le sovrastrutture (“shell-first contruction” secondo la terminologia anglosassone).

Tale tecnologia costruttiva, già testimoniata in ambito egiziano dalla fantastica imbarcazione del faraone Cheope (III millennio a.C.) rinvenuta smontata ma integra nei pressi della piramide, è riscontrabile anche negli unici due relitti dell’età del bronzo finora rinvenuti nel Mediterraneo, se ci si riferisce ad imbarcazioni con una parte dello scafo integra, così da poterne distinguere con certezza la tecnologia utilizzata. I due relitti, adagiati sui fondali al largo delle coste turche, sono quelli di Uluburun e di Capo Gelydonia, studiati da George Bass dell’Institute of Nautical Archaeology della Texas University, datati tra il XIII e il XI secolo a.C. In funzione del loro carico di lingotti di rame e di stagno, ma soprattutto della cospicua quantità di materiali di uso quotidiano e di scambio riferibili all’area levantina, egea e mesopotamica, si suppongono appartenenti a una marineria “internazionale” che operava il commercio con marinai di varia provenienza, presumibilmente dell’area libanese e anatolica, comunque afferibili a quello strato culturale che, sembra, in qualche modo accomunava gli stili di vita dei popoli rivieraschi dediti al commercio e alla pirateria nel Mediterraneo orientale e, in una seconda fase, anche in quello occidentale.

Le navicelle sarde riproducono imbarcazioni riconducibili a tre principali tipologie: una prima tipologia, definita “cuoriforme”, di dimensioni modeste, adatta presumibilmente alla navigazione delle paludi, degli stagni e dei fiumi; una seconda tipologia con fondo piatto e fiancate a spigolo, di medie dimensioni, adatta anche alla navigazione marittima, sia in bassi fondali sia in mare aperto; infine una terza tipologia con fianchi arrotondati, di grosse dimensioni, adatta prevalentemente all’utilizzo in mare aperto.

 

I modelli in scala

Sulle ultime due tipologie, con fiancate a spigolo e con fianchi arrotondati, si è concentrato l’interesse dei membri dell’associazione culturale Archistoria, quando si è pensato di cimentarsi in un lavoro di archeologia sperimentale, cioè nella costruzione di due modelli lignei in scala che utilizzassero, per quanto possibile, le medesime tecnologie costruttive navali utilizzate all’epoca dagli antichi carpentieri sardi nuragici, seguendo come prima traccia i modellini bronzei e le iconografie, e non trascurando le ipotesi risultanti dagli studi in materia.

L’intento era quello di cercare di capire, mediante la realizzazione di modelli in scala 1:20 (sulle presunte misure reali), alcune delle difficoltà di progetto e di realizzazione di imbarcazioni cucite di tali forme, con carena a spigolo o a guscio, lunghe più di dieci metri.
Inoltre, dal livello di rigidità/flessibilità dell’opera compiuta, si voleva dedurre la possibilità che natanti di quelle forme, assemblati esclusivamente mediante cucitura, potessero ragionevolmente navigare in mare aperto.
Ovviamente la costruzione e le osservazioni non avevano e non hanno alcuna pretesa scientifica, ma possono comunque dare una prima indicazione sulla ragionevolezza dell’ipotesi da dimostrare.

La realizzazione dei modelli, durata circa sei mesi, ha avuto una fase di studio di più di due anni. L’operazione è stata possibile grazie alle professionalità presenti all’interno dell’associazione, che ne ha curato lo studio e la realizzazione.
Per il modello con fianchi arrotondati, della lunghezza di quasi un metro, il primo problema da affrontare è stato dare la giusta forma alle assi di legno costituenti il fasciame autoportante dello scafo (privo di una vera e propria chiglia). Pur se in Sardegna non sono presenti alberi ad alto fusto come i cedri del vicino oriente, i pini, le querce e i ginepri potevano comunque sopperire al rifornimento di legname di varia pezzatura e di varia resistenza necessari alla cantieristica.

Il metodo

Si è ipotizzato che gli antichi sardi usassero sagomare il legname su una matrice, che poteva essere anch’essa di travi di legno, disposte in modo da avere dei riferimenti sicuri per ottenere la forma voluta, oppure, più semplicemente, che costruissero in terra e pietra un volume con la forma dell’interno della nave che si voleva realizzare, per potervi poi poggiare i legni opportunamente lavorati e perfezionarli  fino al voluto combaciamento tra gli elementi.
A lavoro finito, la matrice in terra e pietre doveva essere totalmente ricoperta dal fasciame che, opportunamente assemblato, diventava l’elemento portante della nave.
Per ottenere la forma voluta, i legni venivano presumibilmente lavorati con l’ausilio dell’azione dell’acqua e del calore, sotto l’opportuna pressione di pesi e leve.

Per la realizzazione dei modelli si è costruito un telaio (in ferro da carpenteria) con la forma dell’interno della nave, cui si sono poggiati e fissati progressivamente mediante legatura, gli assi già opportunamente sagomati, dando loro la giusta curva mediante bagnatura e successivo riscaldamento.
Dopo circa un mese, dal telaio metallico si sono liberate le assi ormai sagomate: il fasciame autoportante. Gli strumenti oggi a disposizione e la scala ridotta hanno ovviamente accelerato la lavorazione, ma anche nell’età del bronzo, mediante bagno e successivo riscaldamento a fuoco, era sicuramente possibile ottenere la forma voluta in tempi ragionevolmente brevi.
L’operazione più lunga e complessa è stata l’assemblaggio del fasciame.
Su  ogni asse sono stati eseguiti dei fori obliqui non passanti, a distanza regolare, sia nel taglio superiore che in quello inferiore, seguendo la tecnica utilizzata per la nave di Cheope.
Per unire due tavole adiacenti si sono eseguite delle legature con cordino di canapa cerato. Il cordino, una volta attraversati i fori, avvolge una ulteriore stecca lignea di sezione a semicerchio, interposta tra le due assi, con lo scopo di avere un ulteriore protezione contro l’indesiderato filtraggio dell’acqua e per dare una giusta tensione alle legature.
Ripetendo l’operazione più volte si è ottenuto il guscio portante, senza chiglia.

Così come per la nave di Cheope e per i relitti dell’età del bronzo, la struttura è stata rafforzata con ulteriori legni trasversali, anch’essi fissati mediante legatura e, nel caso della nave a fondo piatto, con delle corde esterne, col doppio scopo di rafforzare il calafataggio e aumentare la tenuta sull’onda.
Le opere accessorie, le protomi, le battagliole, gli alberi e le velature sono state poi implementate secondo quanto osservato nelle riproduzioni miniaturistiche e ipotizzando similitudini con le imbarcazioni coeve, mentre per i particolari per i quali non si hanno testimonianze dirette o indirette, si è preferito un richiamo ad opere presenti in imbarcazioni di epoca successiva o, nella maggior parte dei casi, omettere il dettaglio.

Come risultato si hanno due modelli di eccezionale solidità, nonostante l’assenza assoluta di collanti e di chiodi per il fissaggio delle tavole del guscio portante e nonostante non siano stati realizzati ponti di coperta che rafforzerebbero ulteriormente la struttura.
Il sistema di cucitura consente inoltre una manutenzione efficace e poco dispendiosa, anche in caso di ricostruzione di cospicue parti di scafo.

Tale tecnica, nonostante l’avvento delle navi con chiglia e ordinate dei secoli successivi, ha resistito fino al medioevo per piccole imbarcazioni, e talvolta si trova anche in grosse imbarcazioni mista ad altre tecnologie costruttive.

I due modelli verranno esposti in occasione della mostra sulla navigazione antica “Sutiles naves” che verrà allestita a metà dicembre nei locali del Museo Archeologico dall’associazione Archistoria, con il contributo della Dott.ssa Anna Depalmas dell’Università di Sassari.

Carlo Asuni, presidente ass. Archistoria

Biliografia:

• Marco Bonino, in La battaglia del Mare Sardonio-studi e ricerche, CA-OR, 2000
• Anna Depalmas, Le navicelle di bronzo della Sardegna nuragica, Cagliari, 2005
• Fulvia Lo Schiavo, in La battaglia del Mare Sardonio-studi e ricerche, CA-OR, 2000
• Fulvia Lo Schiavo, in I fenici in Sardegna – nuove acquisizioni CA-OR, 1998
• Jean Rougé, La navigazione antica, 19996 Jean – Massari – 1996
• Lionel Casson, Navi e marinai dell’antichità, 2004