Vi proponiamo un articolo tratto dal libro di Gino Bottiglioni “Leggende e tradizioni di Sardegna” inerente le leggende sorte intorno agli edifici e tombe megalitiche della nostra Isola. Se siete a conoscenza di leggende simili relative al vostro paese non esitate a raccontarcele. buona lettura…
Nemmeno i monumenti preistorici, tanto numerosi e ben conservati in Sardegna, suggeriscono alla fantasia del popolo sardo qualche leggenda che si possa ricondurre all’antichità romana e preromana; i nuraghi, le tombe dei giganti, le pietre fitte si riconnettono con fatti e superstizioni di un’età posteriore.
Ad attestarci forse antiche leggende ormai dimenticate resta qualche nome di nuraghe: Domu de is antígus a Capoterra, Is paganus a Jerzu, Mercuriu ad Ardara, Adoni a Villanovatulo; ma in generale i nuraghi hanno il loro nome da qualche caratteristica del terreno in cui sorgono, da qualche santo, oppure dai mostri favolosi che si crede abitino in essi.
Qualche volta il nuraghe è considerato come la dimora del demonio (S’accorru de su Éstiu a Fluminimaggiore) o addirittura la bocca dell’inferno (S’inférru a Sassari); più spesso si vede in esso l’abitazione dell’orco o di un gigante che avrebbe poi la sua sepoltura nelle tombe dette appunto “dei giganti”, le quali si rinvengono vicine alle costruzioni nuragiche.
Però è da notare che la credenza intorno ai giganti abitatori delle antiche costruzioni megalitiche non è solo dei sardi; i “dòlmens” per esempio suggeriscono, ovunque si trovano, quest’idea al popolo, allo stesso modo che le superstizioni riferentisi a quelle curiose tombe preistoriche note in Sardegna col nome di Domus de gianas, hanno qua e là riscontro nelle leggende che fioriscono per esempio in Bretagna e altrove, intorno all’esistenza dei nani che abitavano le caverne.
Però qualche elemento caratteristico non manca nelle creazioni leggendarie intorno alle Domus de gianas, le quali nella mente del popolo, non sono altro che le dimore delle popolazioni che un tempo vivevano da un capo all’altro dell’isola.
Questi nani prendono in Sardegna vari nomi: nella valle di Pottu Codínu, a qualche miglio da Monteleone Roccadoria, si chiamano addirittura nanos, ma la denominazione più diffusa è quella di gianas o giannèddas; a Perdas de Fogu è comune anche il nome di mergianas (a Isili, argianas), in Barbagia, quello di bírghines e, nel territorio sassarese e tempiese, si chiamano li faddi.
E veramente le gianas, nella fantasia dei sardi, sono appunto delle fate di minuscola statura,(Soltanto da alcuni pastori d’Isili e di Nuragus ebbi a udire che le gianas erano di proporzioni immani, delle gigantesse addirittura, le quali abitavano generalmente nei nuraghi.) immaginate, nella loro figura e nel loro carattere, alquanto variamente nelle varie regioni dell’isola.
Il Lovisato ci fa sapere che dai fonnesi le gianas sono concepite come incantatrici, dotate di una voce deliziosa e bellissime, tanto che servono anche oggi come termine di paragone per indicare una bellezza superiore (bella comènti una giana); si scavavano le loro abitazioni con le accette ed erano di sesso femminile e anche maschile, ma, secondo ciò che credono a Tonara, non si potevano distinguere i maschi dalle femmine, perché gl’individui dei due sessi esteriormente avevano un’identica figura piccola e tozza e vestivano ugualmente.
A Tortolì si aggiunge un altro particolare: le gianas avevano delle mammelle lunghissime che gettavano dietro le spalle, sia per allattare i bambini che portavano dentro a delle ceste legate sulla schiena, sia perché non toccassero terra, quando lavoravano; erano poi munite di unghie lunghe d’acciaio, con le quali si scavavano le loro dimore.
Ad Aritzo si arriva perfino a determinare le dimensioni delle piccole fate che erano alte non più di venticinque centimetri, avevano un’intelligenza forse maggiore della umana, ma, data la loro inferiorità fisica, temevano assai gli uomini.
Si erano fabbricati tutti gli arredi delle loro piccole case e tutti gli strumenti necessari alla vita, riuscivano perfino a coltivare il grano e a fabbricarsi il pane, ma il loro cibo preferito erano gli erbaggi e la carne specialmente cruda. Secondo altri aritzesi, le gianas non avevano bisogno di cibo perché
vivevano in grazia di Dio.
Nei bei giorni di sole, esponevano fuori le masserizie di casa, ma se per caso passava qualche uomo, ritraevano tutto in fretta e si nascondevano nelle loro buche caratteristiche, chiudendone l’entrata con una pietra; quindi vivevano a sé, non erano per gli uomini né benefiche, né malefiche, anzi sfuggivano qualsiasi contatto con gli altri esseri della terra.
Invece a Belvì, mi narrarono che le gianas erano donne venute da paesi lontani, ricchissime e bellissime, le quali amavano gli uomini e fecero loro molto bene, finché gli uomini furono buoni, ma poiché essi in seguito divennero malvagi, le piccole fate, sdegnate, lasciarono per sempre i luoghi da loro abitati.
Da un contadino di Belvì, il quale sudava e ansimava sotto il suo carico di legna, udii esclamare, a ssu mank’ esseréus a ssu demp’ e il giánasa, kanno sa linna nos inne dda boltaíant’ íssasa! (= «almeno fossimo al tempo delle gianas, quando la legna ce la portavano esse!»).
Interrogato che intendesse dire, mi rispose che un tempo le gianas solevano, senza esser viste, trasportare al piano i fasci di legna che i contadini avevano tagliato sul monte; un giorno, una di esse ebbe a farsi male ad una mano ed esclamò: anku di bòltent a kkúkkur’ e a ppala! (= «che ti portino sulla testa e sulle spalle!»). D’allora cessò il benefico servigio delle buone fate.
Secondo ciò che si crede a Isili, le gianas avevano anche il dono della profezia e determinavano il destino degli uomini (affadánta), tant’è vero che di una persona fortunata o sfortunata si suol dire: est affadáda beni (mali) de is gianas. Anzi per i tempiesi, jana è passato addirittura nel significato di “sorte”, “destino”; infatti essi dicono spesso: scur’ a la me jana oppure scur’ a la me fata cioè «disgraziata la mia sorte».
Al concetto che rappresenta le gianas come degli esseri indifferenti o benefici per la vita dell’uomo, si contrappone l’altro secondo cui esse sarebbero state capaci di ogni malefizio.
A Tortolì, e a Oniferi s’immaginano come streghe o maghe dannose:52 a Nuoro permane ancora la superstizione che sia pericoloso entrare nelle Domor de janas, nelle quali si trovano nascosti dei mostri terribili (irribbíos) ed è comune il detto: mala jana ti júncat (= «una cattiva fata ti porti»).
A questa concezione s’informa la leggenda che ho trascritta nel dialetto di Nuragus, la quale rappresenta le gianas come ricchissime e molto belle, tutte occupate a tessere, con le loro dita fini e delicate, preziosi broccati, in telai d’oro, ma pronte all’offesa e terribili contro chi le molestasse o solo osasse guardarle.
Il Lovisato non dice quale carattere si attribuisse alle gianas a Tonara; secondo i miei informatori di quel paese, esse avevano un’abitudine che le riaccosta alle súrviles di cui abbiamo parlato.
Quando passava qualcuno innanzi alle loro caverne, stendevano un velo bianco, meraviglioso, che ricopriva tutta la pianura; il disgraziato viandante restava come abbarbagliato e incantato, veniva preso dai nani crudeli e posto in una buca dove erano altre vittime.
Da queste la giana maísta succhiava il sangue e poi, dopo un certo tempo, si rinchiudeva per tre giorni in una caverna speciale donde usciva, lasciandovi le piccole gianas che aveva partorito.
Per fortuna questi esseri pericolosi si andarono sempre più rimpicciolendo, fino a confondersi coi vermi della terra.
Secondo una leggenda di Esterzili (n. LXXIII), le gianas furono pietrificate dall’ira divina.
Nella leggenda di Nuragus già ricordata, si dice che le gianas uscivano solo di notte per timore che il sole le annerisse; in questo particolare insisterono anche vari pastori d’Isili che, interrogati in proposito, affermavano che le fate nane uscivano dalle loro buche soltanto dopo la mezzanotte e allora cucivano e ricamavano, ma più spesso lavavano il bucato e specialmente il corredo delle creature che dovevano mettere al mondo.
A Laconi, si dice perfino che is giannas sono le anime delle donne morte di parto, le quali si riuniscono sulle rive dei fiumi, specialmente del fiume Pizièdda nei pressi di Sartòres, e lavano i panni del loro nato; credenza questa che riannoda le gianas alle panas (donne morte di parto) delle quali dovremo occuparci in seguito.
Non c’è da meravigliarsi che le creazioni leggendarie intorno ai nostri pigmei s’intreccino con altre che hanno con loro qualche affinità; così per esempio una leggenda pubblicata da Maria Manca parla di una jana parente del Maureddu, genietto lillipuziano dalla berretta rossa.
Ma gli esseri favolosi che, nell’immaginazione sarda, hanno maggiore attinenza con le gianas sono i giganti, sia per la ragione del contrasto, sia per la vicinanza che le domus de gianas hanno coi nuraghi e con le tombe dei giganti.
Sorge così naturalmente, nella credenza popolare, la concezione della lotta fra i popoli nani e gli abitatori dei nuraghi, lotta che qualche volta si risolve in favore dei primi i quali, se sono fisicamente più deboli dei loro immani competitori, a volte riescono a superarli con la loro astuzia ingegnosa, poiché i pigmei, in Sardegna come in altre regioni, s’immaginano forniti di una sottile intelligenza.
In questo particolare come in altri, le tradizioni sarde vanno d’accordo con quelle di altre genti, sebbene non siano, come risulta da ciò che abbiamo detto, prive di elementi caratteristici; ma questi non ci autorizzano a pensare che in esse sia rimasto di antico più di quello che rimase altrove.
A tempi remoti, forse all’epoca preromana, risale chiaramente quella che è la peculiarità fondamentale delle gianas, cioè la loro piccolezza, ma questa si riscontra, come dicemmo, anche nei nani delle leggende che corrono sulla bocca del popolo in Bretagna e in altre terre.