La Dea ha due enormi occhi a spirale, antichi custodi di un aldilà che i primi abitanti di questa regione riconducevano alle “domus de janas”, letteralmente “case delle fate”, piccole grotticelle che avevano la funzione di ospitare i defunti sin dal neolitico e oltre. Sepolture di cui l’Isola è disseminata, veri e propri uteri sotterranei in cui i morti attendevano la rinascita nella pancia della Madre Terra, ventri cavernosi dipinti di ocra rosso, perché nel colore del sangue si cela il dogma della creazione.
È una Dea che protegge il viaggio verso l’ignoto mondo oltre la vita, dispensatrice di rinascita, speranza di resurrezione. A Pimentel, Essa diventa Civetta, rapace temuto ancora oggi dai vecchi che si segnano quando sentono il suo grido echeggiare nelle tenebre, un urlo che squarcia la notte, foriero di sventure, secondo le leggende locali. Ahimè, una paura che nasce dalla demonizzazione della primordiale divinità femminile che nella “stria” – civetta trova le sue prime raffigurazioni. Divinità vacca, come testimonia il ricorrente simbolo delle corna che adornano le necropoli.
Dea di Morte, Dea di Resurrezione, Dea di una vita che rinasce dalla sua medesima fine, in un ciclo eterno, incessante, implacabile, impetuoso, così come assetata e impetuosa è la storia di questa terra. A Lei sono stati dedicati megalitici luoghi di culto, come “Sa domu e S’Orgia” di Esterzili, ovvero “la casa dell’Orchessa”, un tempio sede di riti arcaici che nelle trame della storia hanno perso le loro formule.
Una Dea pingue e generosa, dagli abbondanti seni offerti a nutrimento della sua umanità, come testimoniano le tantissime statuette ritrovate nell’Isola. Capezzoli di pietra traboccanti di fertilità che ancora oggi troneggiano sulle camicie del costume tradizionale nei cosiddetti “buttones”. Dolci mammelle scolpite nei betili di Tamuli a Macomer e non solo, riecheggiate nelle numerose coppelle che diventano preziosi scrigni d’acqua, magie di riflessi, custodi silenziosi di rituali perduti.
Una divinità spiraliforme, come spiraliforme è la vita, la danza, il suono, il movimento: non a caso le spirali adornano le pareti dei luoghi dove Lei ancora vive, come nella cosiddetta camera delle spirali nella necropoli di Villaperuccio o nella maestosa Pedra Pintà di Mamoiada. Una “oghe” silenziosa che parla attraverso l’acqua e il suo ipnotico sciabordio che nei numerosi pozzi sacri sparsi nell’Isola ancora oggi regalano ai visitatori-pellegrini intense sensazioni di vita.
“Abba” che diventa sacra perché bene prezioso in una terra piagata dalla siccità. Come a Santa Cristina di Paulilatino, il pozzo misterioso che ha la forma di toppa di chiave. Cosa vuole aprire? Anime liquide, ancora capaci di onorare la Dea con la loro presenza, con il loro passaggio.
Si diceva che a Santa Cristina vivesse una fata chiamata Pazzia. I nomi ereditano la volontà di cancellare il passato e distruggere la storia del tempo della Dea e delle sue sacerdotesse che sono diventate figure leggendarie, ignare vampiresse chiamate Surbiles, megere senza scrupolo conosciute come Cogas, fattucchiere crudeli dette “Bruxias”. Donne che ancora minacciano i mortali con le forbici in mano nell’atto di tagliare loro il “filo” della vita, come a Carnevale fa la “Filonzana” di Ottana, arcaica moira tessitrice di destini.
Donne dal cuore trafitto di un dolore che le ha rese creature di pietra dalle strane sembianze, come Luxia Arrabbiosa. Di secolo in secolo, di generazione in generazione le bocche delle madri hanno tramandato le vicissitudini legate a una divinità cattiva, capace di insidiare gli uomini, di mangiare i fanciulli, di vivere in caverne e isolarsi dalla società ignorandone i suoi dettami. Ma ora siamo in grado di strappare il velo della storia e al mondo mostriamo cosa si nasconde dietro tali mistificazioni: la luce della Dea, la gioia della vita. Non occorre molto, visitate questi luoghi e avvertirete la sua presenza.
Quasi dimenticavo. Benvenuti in Sardegna.
Valentina Lisci
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