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Magia e “verbos” nel supramonte di Oliena

Tempo di lettura: 4 minuti

Magia e _verbos_ nel supramonte di Oliena

I pastori del Supramonte ricorrevano spesso alla magia, “sas leghias“, per combattere le avversità, le malattie, il malocchio e la malasorte.

Tanti erano i pastori che sapevano curare animali e uomini ricorrendo a pratiche e riti ancestrali, recitando preghiere o più comunemente “verbos“, parole magiche che – si diceva – funzionassero regolarmente.
Un capraro mi ha raccontato di aver curato per molti anni la mastite delle capre sfregando delicatamente il corno sinistro di muflone sulla mammella gonfia, ogni tanto disegnava una croce sulla pelle tumefatta.

Per evitare le razzie dell’aquila reale e della volpe i pastori si rivolgevano agli anziani.
Un rituale in particolare prevedeva il sacrificio della capretta più bella e dal mantello bianco.
Parole sacre venivano recitate, e l’aquila, per quella stagione non toccava nessun’altra capretta.

Un anziano capraro mi raccontò della sua disperazione per i danni causati dalla volpe.
Intere notti trascorse all’addiaccio ad aspettarla, invano, col fucile pronto a sparare all’indirizzo della “furba” che, imprendibile, continuava a rubargli capretti.
Spinto dallo sconforto, il capraro si era recato nel territorio di Orgosolo, dove si trovava un servo pastore di Oliena che sapeva fare “sa medihina” contro la volpe e l’aquila.
L’uomo l’aveva tranquillizzato e gli aveva chiesto solo quante caprette possedesse.
Prima di congedarlo gli aveva detto: “Vai sereno, vedrai che la volpe non entrerà più nei tuoi recinti“.
Come per incanto la volpe non gli portò più via le caprette.

Di storie simili gli anziani caprari e porcari me ne hanno raccontato tantissime.
Ziu Peppeddu Cossu è un anziano capraro di Orgosolo, nato nel 1926.
Peppeddu ha trascorso la vita a S’Ischinale de Mesu, Ala Sennora e Ottulu, abitando nei Pinnettos appresso alle sue capre.
Conosco i figli da diversi anni e loro mi hanno raccontato che il padre faceva “sa medihina pro predere s’ave“, la medicina per legare l’aquila.

Mi sono recato a Orgosolo e sono andato a trovarlo a casa sua.
Abbiamo cominciato subito a parlare dell’argomento.
Mi ha raccontato che faceva la magia per impedire all’aquila di rubargli le caprette.
Inaspettatamente mi spiegò in che modo si effettuava l’antico rituale, parole magiche comprese.
Al tempo stesso mi ammonì: avrei dovuto trasmetterlo solo a una persona più giovane, così come la tradizione vuole, per non perdere il potere del rito.
Senza volerlo, ziu Peddeddu mi ha investito di un potere magico, che non so se saprò tramandare, anche perché non ho caprette da proteggere e per le aquile ho una grande simpatia.
Per rispetto di ziu Peppeddu Cossu e di tutte le persone che credevano ciecamente nel rito ancestrale, non renderò pubbliche le parole dell’antica preghiera.

Ingenuamente gli chiesi se la sua “medicina” funzionasse.
Mi rispose di sì in modo deciso e convinto, e anche l’anziana moglie – che era presente – confermò che il rito funzionava, eccome.
Poi aggiunse, perentoria: “Bisonza de tenner’ide“, è necessario avere fede nella potenza del rito.
Mi raccontò di averlo eseguito più volte per le sue capre e per altri caprari, e che aveva sempre funzionato.
Ma mi disse anche di averlo fatto per alcuni caprari e che l’effetto era stato disastroso solo perchè i “committenti” non avevano creduto alla magia del rituale.

Un’altra volta aveva officiato il rito per i suoi animali.
Dopo un mese gli portarono, da Orgosolo, la capretta figlia della “mannalitha“, la capra di casa che forniva il latte alla famiglia.
Lui e i suoi fratelli erano sicuri che la medicina avrebbe funzionato anche per lei, visto che aveva fatto “sa leghia” giorni prima.
Ma la capretta dopo una decina di giorni sparì e non riuscirono a trovarla nonostante le accurate ricerche.
Capirono allora che la preghiera non aveva funzionato perché ia capretta non rientrava nel numero delle bestie da proteggere.
Il rito infatti consiste nel prendere un pezzo di raffia o spago e fare tanti nodi quante sono le caprette da allevare e tutelare; il numero esatto delle caprette va ripetuto nove volte mentre si recitano i “verbos”, le parole magiche.
Il pastore deve essere solo e non dev’essere disturbato da nessuno, altrimenti si deve ripetere il rito daccapo.
La raffia annodata viene avvolta con l’inserimento di medagliette o immagini sacre e sistemate sotto un sasso sull’uscio della “mandra“.
Al momento del rito la capretta scomparsa non era stata conteggiata, e quindi non era protetta.

Gli chiesi se qualche volta avesse sparato all’aquila.
Mi rispose che se l’avesse fatto il rito sarebbe stato inutile perchè si basava su un patto sacro, stretto tra il pastore e l’aquila, di reciproco rispetto.
Mi raccontò di un’aquila che – in picchiata – si era calata vicino all’ovile per prendere un piccolo cagnetto.
Lui aveva sparato in aria per spaventarla, giusto perchè liberasse il cucciolo.
L’aquila lo aveva mollato solo dopo quattro fucilate, ma lo aveva liberato da un’altezza di 20/30 metri dal suolo.
Il cagnolino si era sfracellato tra le rocce.

Tanti pastori mi hanno raccontato di aver sparato in aria per spaventare l’aquila e costringerla a liberale un capretto o un suinetto appena catturato.
Non è mai però mancato il rispetto nei confronti del rapace, che cattura anche piccoli di volpe e di martora, i predatori più temuti dalle genti di montagna.
Mi hanno riferito anche di qualche pastore che, esasperato per le perdite subite, aveva sparato all’aquilotto dentro il nido, sperando di “calmare” le aquile che – nel periodo di allevamento del piccolo – sono delle vere e proprie macchine da preda.
Ancora oggi nel Supramonte e in tutto il centro Sardegna le aquile reali godono di ottima salute.
Sara una conseguenza del misterioso e ancestrale rito?

Tratto da “Supramonte di Oliena” di Angelino Congiu