Un articolo a firma di Sara Vargiu da leggere perchè offre un’interessante spunto di riflessione quando descrive la perizia con la quale i simboli sacri vengono rimossi quasi a non renderli testimoni di quanto si stava per compiere in presenza de s’Accabadora.
“Quando l’idea della morte diventava dolce compariva lei, l’accabadora, con la presunzione di rendere la morte una realtà “dolce”.
Accabare in sardo significa portare a termine, finire. Le donne accabadoras giungevano in tarda serata, a calar del sole, in casa del morituro. Chiudevano la porta e controllavano che nella stanza non ci fossero oggetti sacri, quali medagliette, croci, giacché si credeva che con la loro presenza avrebbero impedito all’anima di uscire dal corpo, prolungando l’agonia. Si sedevano davanti al malato agonizzante, recitavano il rosario e per mezzo “de unu mazzolu”, in nome di Dio e per pietà, con un colpo secco vibrato alla testa o al cuore del malato, mettevano fine alla vita. Su mazzolu era una mazza di legno avvolta nell’orbace, lunga 42 centimetri e larga 24. Annerito, lucido della patina del tempo, l’unico esemplare superstite di questo strumento è esposto nel museo etnografico di Luras. Le accabadoras, avvolte da un fazzoletto nero, lasciavano la casa del moribondo senza ricevere alcuna ricompensa e senza incontrare e salutare nessuno. Poco dopo, i familiari annunciavano la morte del parente e accendevano i ceri attorno al letto. La tradizione popolare personifica la pietosa morte in una donna vecchia e malvagia che esercita poteri occulti e recita formule magiche. Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti.
Gli ultimi episodi di accabadura avvennero a Luras nel 1929 e a Orgosolo nel 1952. ”
Sara Vargiu