Tempo fa, presso il Convento di Sant’Antonio da Padova a Ploaghe, viveva un frate di nome Francesco, a cui la comunità dell’epoca era molto legata.
Si diceva che avesse una particolare sensibilità che gli permetteva di vedere dove gli altri non vedevano, di udire ciò che gli altri non udivano.
Tante persone si recavano da lui per essere confortate, confessate, oppure semplicemente per ascoltare la messa.
Francesco era uomo di animo mite e sempre disponibile ad aiutare il prossimo. Il convento è ubicato al centro del paese. Poco distante, si trovava e si trova tutt’oggi il cimitero.
Entrambi i luoghi sono separati da un lungo viale alberato che anche ai giorni nostri ha conservato il suo fascino.
Sulla via si apre una piazza sontuosa che, durante le belle giornate, è popolata da bambini di ogni età, che con i loro giochi e risate trascorrevano attimi di felicità.
La distanza tra la vita e la morte era da quelle parti questione di pochi passi.
Tornando a padre Francesco, di lui si narra una leggenda.
Tutti i trenta di ogni mese, alle ore tre del mattino svolgeva una funzione, nota come Sa Missa profunda, la messa profonda, così chiamata perché aveva luogo nel cuore della notte e terminava con il terzo canto del gallo alla mattina, quando il giorno rianimava le vie.
La particolarità de Sa Missa profunda era che ad assisterci non erano i comuni fedeli, ma i defunti.
Come già ho avuto modo di narrarvi, la piazza del convento era sempre animata da tanti giovani e ragazzi che trascorrevano lì il loro tempo migliore, eccetto il giorno trenta di ogni mese.
Le mamme che ben conoscevano la tradizione, si premuravano affinché i loro figli rientrassero a casa prima dell’imbrunire. Si raccontava, infatti, che al calar della sera, un vecchietto con un carro trainato da tre cavalli trasportasse le anime dal cimitero al convento.
I ragazzi, da sempre, avevano ascoltato dai loro genitori e nonni questo racconto e, sempre per timore e obbedienza, rincasavano prima dell’Ave Maria.
Una sera, tre di loro decisero di eludere quella prescrizione, con l’intento di scoprire se quella storia così misteriosa ed inquietante fosse vera.
Era una sera fredda d’inverno: il calendario segnava il trenta gennaio del 1866.
I tre si nascosero dietro una siepe.
Come se si fossero preparati a una vera e propria missione, avevano con loro qualcosa da mangiare e della lana per ripararsi dal freddo.
Il giorno andava ormai morendo e sul colle del cimitero un grande sole rosso lentamente si perdeva all’orizzonte.
Secondo la leggenda, il suo lento calare avrebbe accompagnato il carro che, guidato dai cavalli al piccolo trotto, si sarebbe diretto verso la piazza.
Da dietro la siepe, i tre si stringevano sempre più forte facendosi coraggio l’un l’altro. Scappare era impossibile, si correva il rischio di esser visti.
All’interno del convento, intanto, finita la cena, i frati si ritiravano in preghiera nelle loro stanzette.
Padre Francesco con la sua coroncina tra le mani si mise il cappuccio in testa, uscì nel chiostro interno e da una piccola porta entrò in chiesa.
Si preparava per la messa; anche lui aspettava l’arrivo del carro.
Non tutti hanno il potere di vedere i morti. È un dono, questo, che solo pochi possiedono, tra questi privilegiati, vi era lui.
Di lontananza, l’’anziano conduceva il carro; nessuno poteva vedere cosa costui trasportasse.
Il cocchiere era un uomo pio e devoto che durante l’anno si guadagnava da vivere facendo l’orto nei campi dei cappuccini o facendo da custode e manutentore dei beni ecclesiastici.
Aveva ricevuto questo incarico proprio da padre Francesco, il quale lo reputava un uomo di fede forte e dalla condotta morale impeccabile.
Semplice e umile, possedeva le caratteristiche adatte per custodire il segreto.
La notte avanzava e diveniva sempre più cupa. Il carro era oramai giunto a destinazione e si fermò di fronte al portone della chiesa che, qualche istante prima, era stato spalancato dal cenobita.
I baldi giovani osservavano tremuli e ammutoliti il rituale.
Videro le anime che lentamente e in fila ordinata scendevano dal carro intonando un requiem.
Aspettavano sul portone il cenno del frate che le invitasse a prendere posto tra i banchi.
La vicinanza all’Eucarestia aveva un effetto benefico sulle loro esistenze, potevano sentir vicina la presenza di Dio, le rendeva più vicine al paradiso e alleviava le pene del purgatorio.
Ecco il senso del mistero: per arrivare in alto a Dio dovevano ritornare giù sulla terra.
Una volta entrate, il portone rimaneva socchiuso e il vecchio cocchiere attendeva e pregava.
I tre ragazzi, intanto, incantati dalla scena, sgattaiolarono fuori dal nascondiglio.
Troppo grande, infatti, era la curiosità per non decidere di avvicinarsi al portone e sbirciare un po’.
Accadde però che, in prossimità del sagrato, la loro presenza fu avvertita dai cavalli che iniziarono a nitrire e scalciare.
Padre Francesco, uditi i rumori, interruppe la messa. Non era mai successo che qualcuno avesse rotto il profondo silenzio di quel sacro momento.
Le anime uscirono disorientate dalla chiesa.
Ormai scoperti e impauriti cercarono di fuggire verso casa.
Uno di loro inciampò e cadendo sbatté la testa.
I suoi compari, nella concitazione del momento non si fermarono immediatamente a soccorrerlo, ma attesero qualche ora.
Il ragazzo giaceva sul suolo ancora privo di sensi.
Lo scossero e gli assestarono qualche leggero schiaffo per destarlo da quel sonno pesante nel quale era sprofondato.
“Sognavo o era tutto reale?“, chiese riprendendosi. “Era tutto reale!“, risposero i due all’unisono.
Cercando di alzarsi, il ragazzo si accorse che il suo pugno sinistro stringeva un osso.
“Perché ho quest’osso in mano? Cosa mai vorrà dire?” Ci furono dei secondi di silenzio.
“Voglio parlare di questa notte con padre Francesco“, disse tutto tremante, ma deciso.
Gli amici annuirono, quasi rassegnati.
Si recarono presso il convento nel primo pomeriggio e incontrarono il frate il quale, aspettandosi la visita, li attendeva in piedi al centro della navata.
Il malcapitato gli si avvicinò tenendo l’osso avvolto in un pezzo di stoffa.
Li accolse con queste parole: “Badate, ciò che avete fatto è molto grave. Quell’osso che ora avete tra le mani andrà restituito il prossimo trenta del mese e se questo non avverrà, chi l’avrà in possesso perirà. Presentatevi dunque alla messa a mezzanotte, prendete posto nella cappella alla mia sinistra e quando sarà il momento della comunione avanzate per primi, inchinatevi e lasciatelo sull’altare in modo tale che l’anima lo possa riprendere“.
Solo il ragazzo destinatario della sciagura ebbe il coraggio di annuire col capo, mentre gli altri due mascalzoni penitenti gli stavano alle spalle.
I giorni che precedettero la data furono pieni di ansia e paura, nelle loro menti riecheggiavano pressanti le parole del frate.
La notte arrivò.
Giunsero in chiesa anzitempo, si sistemarono in fila di fronte all’altare, mentre Padre Francesco iniziava a preparare il tutto per la liturgia: le candele, i fiori, le bancate.
Dopodiché, si ritirò in preghiera.
Il silenzio che nessuno osava spezzare fu infranto dai gemiti provenienti dall’esterno, il carro delle anime era giunto nuovamente a destinazione.
Scoccarono le tre del mattino, iniziò la messa, le anime si disposero come sempre, cercando il più possibile la vicinanza al tabernacolo.
Pregavano, avevano fame e sete di Dio.
Quando giunse il momento della celebrazione eucaristica si misero tutte in fila e fu quello il momento ideale per anticiparle, posizionarsi in testa e consegnare l’osso senza destar troppa attenzione.
Col capo chino e le anime tribolanti al seguito, senza mai alzar lo sguardo, riuscirono nell’intento di posare l’osso sull’altare.
Andò tutto per il meglio, con la fine della messa, passò anche un po’ della paura.
Il carro riprese la via del camposanto. Il vecchio cocchiere prese in mano le briglie e prima di spronare i cavalli, guardò i ragazzi, li fissò e disse loro: “Questa volta vi è andata bene ma ormai anche voi siete a conoscenza di questo segreto e nulla sarà come prima. Pregate e cambiate in meglio la vostra esistenza. Il tempo passa inesorabilmente, molte cose non saranno come voi vi aspettate, abbiate cura di questo ministero e della vostra anima. Io ormai sono vecchio e non manca molto al momento in cui anch’io potrò essere a bordo di quel carro, spero di veder subito la gloria celeste, prego sempre affinché Dio perdoni le mie colpe. Sappiate! quando passerò a miglior vita, toccherà a voi guidare il carro.”
“Noi?“, reagirono i ragazzi.
“Sì, voi! Questo è un ruolo che si tramanda di generazione in generazione e sempre sarà così. Tempo fa ero un giovane come voi, facevo rientro dai campi stanco e affaticato, percorrevo la salita di Maria Marronca quando, ad un tratto, vidi il carro passare. Chi vede il carro dovrà giocoforza prenderne le redini al posto di colui che in quel momento lo conduce. Da quel giorno sono passati quasi sessant’anni. Ora toccherà a voi e sarà così fin quando qualcun altro riceverà il dono di assistere al vostro tragitto. Addio, ragazzi, padre Francesco vi spiegherà tutto. Vado incontro all’alba, sperando che sia l’inizio della vita piena per me.”
Il vecchio e il carretto, così, si allontanarono e sparirono tra la luce del sole che lentamente sorgeva. Passarono gli anni e i tre ragazzi svolsero nel tempo il loro dovere.
Tutti ebbero una vita felice e una volta anziani, morirono circondati dall’affetto dei figli e dei nipoti.
Ad oggi non sappiamo chi rivesta il ruolo del cocchiere delle anime, è certo che ogni trenta del mese, ancora adesso, si celebra la stessa messa, Sa missa profunda.
Qualcuno in paese avrà questo incarico ma è sicuro che non parlerà.
Se volete conoscere il suo volto non vi rimane altro che scoprirlo da voi, come fecero i protagonisti della nostra storia.
Ogni trenta del mese, alle tre del mattino, il carro sosterà nella piazza del convento.
Tratto dal libro “Sardegna Paranormale” di Pasquale Demurtas
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