Sardegna, quasi un continente, affermano con un misto di modestia e d’orgoglio innocente i sardi.
Certamente, assai più d’una semplice isola.
Si dice che chiunque l’abbia visitata, anche una volta sola, non possa sfuggire al «mal di Sardegna».
Una sottile sofferenza che si può placare solo ritornando, almeno per un attimo, ad abbeverarsi alla natura di questo ultimo paradiso mediterraneo.
Tra tutti gli angoli della Sardegna, il Gennargentu è il cuore segreto dell’isola, la sintesi di tutte le sue migliori doti: coste e montagne, gole e fiumi, pareti e foreste.
Siamo in Barbagia, una terra fiera e selvaggia che, scriveva Guido Piovene, «ha ancora la maestà, l’aristocrazia, la dolcezza delle terre rimaste fuori dal tempo».
Una tradizione sarda vuole che Gennargentu significhi «genna de su bentu», cioè porta del vento; e del resto genna, evidente derivazione dal latino janua, porta, è toponimo frequente nell’isola, dove designa famosi valichi montani: Arcu Genna Bogai, Genna Flores, Genna Silana… anche se le gemme e l’argento non c’entrano affatto, il nome resta dunque bellissimo nella sua semplicità, come tutto ciò che promana da questo ambiente grandioso e severo.
Sono le montagne della solitudine, il regno del silenzio.
Un paesaggio solenne, in cui è facile camminare ore ed ore senza incontrare mai anima viva.
Può darsi che un muflone ti osservi da una roccia, o un pastore ti scruti dall’ombra d’un leccio isolato.
Se entrerai nel «cuile», il rustico ovile del pecoraio sardo, tornerai indietro alle radici della tua civiltà e udrai storie incredibili, fino a scordarti del mondo esterno.
Chilometri di pietraie riarse, d’infocate garighe o di macchie compatte.
Una fatica improba, compensata però dal godimento di scoprire sempre nuovi scenari e soprattutto dal privilegio di vivere in una dimensione diversa.
C’è l’asprezza di Su Gorropu, impressionante gola intagliata tra le rocce calcaree, con inaccessibili pareti e vertiginosi salti anche d’oltre 300 metri, dove si librano gli ultimi rapaci.
E c’è la sorpresa di Su Suercone, improvviso baratro non lontano da Campo Donanigoro: una dolina larga 500 metri e profonda quasi 200, nel cui fondo si sono conservati interessanti relitti vegetali, tra cui decrepiti esemplari arborei di tasso.
C’è la vetta suprema del Gennargentu, a 1834 metri di quota, chiamata Punta La Marmora in onore dell’ufficiale-naturalista piemontese che la descrisse nel secolo scorso: una paesaggio terso, vastissimo, che può anche ricordare certe contrade dell’Appennino.
Ci sono le nere foreste di lecci, veri relitti della primigenia selva mediterranea, che forse in nessun altro luogo, come nel Gennargentu, trovano espressione altrettanto viva, prorompente, poderosa.
La selva più remota, in qualche tratto addirittura intatta, è quella di Campos Bargios, dove poca luce filtra attraverso i rami e molti colossali lecci cadono al suolo per la vecchiaia, preparando con il loro stesso disfacimento naturale la sorgente di vita dei nuovi germogli: vi si nascondono cinghiali, ghiri, martore, gatti selvatici, poiane e sparvieri.
E soprattutto vi abitano varie coppie del magnifico astore, che con acrobazie da funambolo si tuffa tra le fronde degli alberi alla caccia delle numerose e ciarliere ghiandaie.
Per chi voglia ammirare boschi meno selvaggi, ma non privi d’un proprio fascino solenne, la foresta di Montarbu presso Seùi, dai magnifici lecci secolari, e la foresta Montes presso Funtana Bona, dall’aspetto quasi lussureggiante, costituiscono due superbe testimonianze di quel verde manto che, fino a un secolo fa, rivestiva l’intera Sardegna.
Discendere a piedi lungo le codule, stretti valloni interminabili che portano verso il mare, può rappresentare la più bella avventura: qui sgargianti fioriture di pancrazio illirico e di digitale purpurea, secolari carrubi, robusti ontani neri e oleandri dai colori insolitamente intensi ravvivano il paesaggio: mentre nelle acque dei limpidissimi ruscelli s’incontrano trote, raganelle e natrici viperine.
Ma la montagna che forse più di tutte evoca purissime immagini della realtà sarda è il Supramonte, complemento inscindibile del Gennargentu e spettacolo indimenticabile per chi l’ammiri al tramonto dalla balconata naturale di Nuoro o del Monte Ortobene.
Acropoli inespugnabile dei più genuini valori barbaricini, stupenda mole biancastra, gialla o rosata che incombe sui villaggi di Oliena e d’Orgosolo.
Scalata la sua verticale facciata, si penetra nel regno lunare del deserto di pietra e ci si attesta sopra uno dei sistemi carsici più complessi e sconosciuti che esistano al mondo.
Al di là delle apparenze, valloni e coste montane nascondono ancora vita animale e vegetale insospettabili: e nei luoghi più riparati e inaccessibili vistose fioriture di peonia, di ferola o di ginestra etnense, accolgono l’ospite fortunato, che può anche avere la sorte d’incontrare l’aquila reale in caccia o in amore.
A rendere più fantastico il paesaggio di certe parti del Gennargentu sono gli strani torrioni rocciosi, che sorgono bruscamente dalla piana come ultime vestigia dello strato calcareo che un tempo doveva estendersi ovunque compatto. Non c’è nulla di simile in altre parti d’Italia, ricordano piuttosto «mesas» americane oppure «ambe» africane. Sono detti, a seconda che ci si trovi alla sinistra o alla destra del Flumendosa, «tacchi» o «toneri»: isole d’un arcipelago calcareo emergenti nel mare cristallino circostante.
Su queste torri si sono conservati lembi di natura di particolare interesse: nidi di rapaci, frammenti di vegetazione a carattere relitto. Non poche pianticelle, anche bellissime, rappresentano endemismi tipici degli speroni calcarei: come il limonio del Muris, l’elicriso delle rocce, la cimbalaria del Muller, la potentilla caulescente…
Ma, soprattutto, i tacchi rappresentano uno straordinario elemento scenico, essenziale nell’armonia d’un paesaggio duro ma pittoresco, e non a caso hanno sempre ispirato profondamente la cultura e la fantasia delle genti locali.
Tutti conoscono il tacco di Texile presso Aritzo, il Toneri di Tonara e quello di sa Ligini, o della Vergine, il Tacco Ticci e il Tacco Re presso Sèulo.
Anche Monte Novo San Giovanni è un suggestivo torrione a picco, isolato e pittoresco, che domina la distesa dei pascoli e delle leccete presso Funtana Bona: vi si accede con una facile arrampicata, conquistando dalla sua nuda sommità di 1316 metri uno dei più sconfinati spettacoli sulla distesa del Gennargentu.
Il più strano, isolato e fantastico torrione è la Perda Liana, alta appena 1239 metri, ma inconfondibile tra mille e incontrastata protagonista del paesaggio in tutta la parte meridionale del massiccio, vero «totem» naturale che dovette sprigionare un richiamo irresistibile verso i popoli primitivi della Sardegna.
C’è chi vuole che il suo stesso nome significhi Pietra degli Iliensi, la misteriosa gente che abitò l’isola nei tempi più remoti.
Camminare tra queste montagne è una delle più belle esperienze che sia dato oggi vivere, a un tiro di schioppo dalla nostra civiltà: qui ogni incontro con altri uomini, con gli animali e con la natura è carico d’un senso profondo che non è facile dimenticare.
Una volta, per conversare con due loquaci caprai, dovetti correr loro dietro per ore in un vallone scosceso e dirupato, mentre le loro bestie instancabili riuscivano a brucare qualcosa più in basso.
Uno di loro mi spiegò che le capre, alla continua ricerca di cibo, non si fermavano mai: e i pastori non potevano evitare, come per una terribile nemesi, di seguirle anche in capo al Supramonte.
Forse anche per questo, molti pascoli sono ormai deserti e i loro pittoreschi ovili di pietra e legno di ginepro restano muti e abbandonati.
Vedere il muflone non è facile, una caccia barbara e spietata lo ha reso elusivo e diffidente: un po’ più probabile incontrarlo d’inverno, allorché è costretto a spostarsi in gruppi e la vegetazione è meno compatta.
Eppure il re delle montagne nuoresi esiste ancora, e gli sforzi dei pochi che sul posto cercano di difenderlo dalla barbarie (tre cacciatori sterminarono qualche anno fa, in un profondo canalone, le ultime sei femmine gravide della zona) stanno finalmente portando i loro frutti: grazie al lavoro oscuro e duro delle guardie forestali e venatorie, dei giovani del WWF e degli altri uomini di buona volontà, cresce la ribellione e la condanna contro il bracconaggio, e in qualche luogo, come al Supramonte di Seùi, il muflone riprende lentamente a moltiplicarsi.
Ma resta sempre assurdo e vergognoso che in tutta la Sardegna, sua vera patria, non ne restino forse poco più di un migliaio (meno che in una singola riserva della Toscana); mentre, anche a voler considerare la questione sul piano strettamente utilitaristico, quest’ungulato frugale e innocuo sarebbe la vera ricchezza delle garighe e dei cisteti dell’isola, e l’unico essere vivente in grado di trasformare quelle piante poco appetibili in preziose proteine.
Un tempo il cielo del Gennargentu non era mai vuoto, e nello spazio azzurro volteggiavano sempre, veri signori dell’aria, maestosi avvoltoi di più specie.
Senza di loro oggi la montagna sembra orfana, colpita da qualche infausta calamità.
C’era il grande grifone, il più numeroso tra tutti, capace di esplorare in ordinata formazione le vaste distese aride, scendendo lentamente a spirale (in modo che anche il resto della formazione potesse seguirlo) non appena avesse scoperto, dal frenetico movimento dei corvi e delle gazze, il pasto della giornata.
Oggi avvistare qualcuno dei pochi superstiti rappresenta quasi un avvenimento.
Ma c’era pure il nero avvoltoio monaco, dal becco robusto come una scure, che divideva con il primo le carogne faticosamente scovate, secondo rituali e gerarchie scolpiti nel libro della natura.
La sua condanna fu segnata dalla distruzione delle foreste, che annientò la sua casa: quelle chiome inaccessibili dei lecci millenari proprio sul tetto del bosco, dov’era solito nidificare.
Si racconta infatti che anni fa i boscaioli, abbattendo qualcuno degli alberi più giganteschi, vedessero cadere assieme ai tronchi solitari nidi dalle proporzioni impressionanti.
Ma non mancava neppure il più mitico e raro dei grossi divoratori dei cadaveri, il gipeto barbuto o avvoltoio degli agnelli.
Compariva per ultimo, scivolando agile e sicuro nell’aria, per poi piombare a divorare i resti dei pasti.
Molti pastori ricordano d’averlo visto sollevare in volo le ossa, facendole poi precipitare sulla roccia per spaccarle e prelevarne il midollo.
Ma anche «su gurturgiu ossaru» è diventato, in Sardegna, una vera leggenda.
Pare che nell’isola non ve ne sia più che qualche esemplare vagante, una vera araba fenice che pochissimi sono riusciti a vedere.
E certamente manca una coppia giovane in grado di assicurare la perpetuazione di questo straordinario animale.
Così molti appassionati della natura sognano ad occhi aperti, immaginando che un giorno o l’altro l’avvoltoio degli agnelli tornerà in Sardegna, arrivando dalla vicina Corsica (dove un recentissimo censimento ha accertato la presenza di circa 1318 coppie, assai più di quanto non s’immaginasse).
Ma perché questo miracolo possa avvenire il Gennargentu dovrà tornare, auguriamoci un giorno molto vicino, una vera casa ospitale per tutta quella natura che costituiva un tempo, e dovrà tornare ad essere, la sua più preziosa ricchezza.
Articolo di Bruno de Martis pubblicato nel 2010