Il culto dell’acqua.
L’antica divinità delle acque nel sincretismo religioso locale fu assimilata ben presto alla Madre di Dio. Dalle sorgenti ai ruscelli, dalle fontane ai fiumi, frequentissima è la presenza di simulacri della Madonna in relazione al liquido salvifico: la Beata Vergine delle Acque o Santa Maria della Neve, la Madonna Nera, delle Acque o quella d’Itria, vengono ancora portate in processione per invocare la pioggia. In una terra priva di grandi risorse idriche naturali, la società agropastorale ha sempre vissuto l’assenza di precipitazioni come una drammatica punizione divina, cui porre rimedio con riti devozionali in onore del nume tutelare, soprattutto nel mese che dava inizio alla nuova stagione lavorativa. E così le contrade dell’isola si animano, ancora oggi, di coinvolgenti feste di fine estate: la Madonna del Rimedio l’8 settembre a Oristano; Nostra Signora de sos Regnos Altos a Bosa il 7 settembre; Nostra Signora di Tergu, l’8 settembre; dal 7 al 17 settembre a Bortigali si festeggia Santa Maria de Sauccu; la Madonna di Bonarcado il 18 e 19 settembre; Sa festa manna a Sardara, il penultimo lunedì del mese di settembre, in onore di Santa Maria de is Acquas, patrona della diocesi di Ales-Terralba: i festeggiamenti si svolgono nel santuario campestre, realizzato nel XVIII secolo ma che insiste sulle antiche terme romane di aquae calidae neapolitanae.
San Sperate.
E a San Sperate? Una volta l’anno, l’8 Settembre, proprio in occasione della festa di Santa Maria Bambina, in corrispondenza de s’incugia (la raccolta dei proventi dei raccolti che venivano venduti a su Monti, il Monte Granatico), venivano liquidati gli stipendi annuali dei braccianti. Vincolo stretto quello fra fede e lavoro anche nell’antica società sparadesa: su pressiu ‘e Santa Maria era, non a caso, il nome della qualità di pesche settembrine per eccellenza.
Il calendario agrario e i culti bizantini.
Se Francesco Alziator, nel 1957, sentenziava: «Per i sardi l’anno non comincia a gennaio; esso inizia invece a settembre e solo i mesi di gennaio, febbraio, marzo, aprile e maggio, e cioè cinque su dodici hanno nomi uguali a quelli usati dalla maggior parte della cristianità; gli altri sette hanno nomi particolari, usati solo nell’Isola e neppure in tutta l’Isola, ma solo in certe zone e talvolta assai limitate. […] Considerato nel suo insieme, il calendario sardo appare come l’espressione di un popolo essenzialmente dedito all’agricoltura». Il Bonfante si spingeva oltre, evidenziando influenze ebraiche nel nome del primo mese, Cabudanni, che risulterebbe traduzione letterale di Roshasannah, il capodanno giudaico del mese Tishri, coincidente con i trenta giorni a cavallo tra settembre e ottobre. Gli studi più recenti hanno tuttavia messo in evidenza lo stretto rapporto del computo del tempo nell’isola con la dominazione bizantina. Numerosi sono, infatti, i calchi semantici riscontrabili nella denominazione tradizionale sarda: Cabudanni, il primo mese dell’anno, pur essendo di etimologia latina (caput anni), si rifà alla tradizione ortodossa in cui l’anno ecclesiastico inizia proprio il primo settembre, così come Mes’e Argiolas, Mes’e Trìulas (Luglio rispettivamente in campidanese e logudorese) pur essendo entrambi afferenti al concetto della trebbiatura o del luogo in cui essa avveniva, presentano un’evidente derivazione dal greco halonoion (aia) solo nella variante meridionale, quella cioè dell’area isolana maggiormente interessata dalla dominazione bizantina.
Le influenze Ebraiche.
Attraverso l’Africa romana è giunta verosimilmente nell’isola anche la forma più antica del venerdì sardo: cenabara (cenabura, cenabra, cenàbar, chenàbura) è, infatti, imprestito latino da coena pura, attestato in Agostino in relazione agli ebrei africani, che lo portarono nell’isola in seguito alla deportazione voluta da Tiberio. Con questo sintagma si indicava la vigilia del sabato, ossia la “Cena prima del Purim”, con una neoformazione che fondeva il termine latino Coena con quello ebraico Purim: da Purim a Purus il passo poi è davvero breve. Originariamente solo durante il periodo pasquale si utilizzò questo termine, giacché esso indicava una dieta di pane senza lievito, secondo i dettami previsti dai rigidi precetti biblici per quel periodo dell’anno: il divieto di mangiare carni impure favorì l’abitudine di cibarsi di pesce e di bottarga di muggine, come attestano le fonti antiche per la comunità di Cartagine. Con l’avvento del Cristianesimo la Cena pura ebraica, venne convertita nel pasto penitenziale del Venerdì, giorno di digiuno e astensione dalle carni, in cui però era tollerato il moderato consumo di pesce. Della sensuale e peccaminosa Venere, eponima del Venerdì latino, non vi è dunque traccia nella settima sarda, ben più legate a tradizioni religiose semitiche e cristiane che ai fasti del paganesimo imposto da Roma.
I mesi.
Il secondo mese dell’anno dopo Cabudanni era generalmente indicato come Mes’e Ladamini, in riferimento al letame utilizzato per la concimazione dei campi che avveniva in quel mese; fra le varianti si ricorda anche Santuaine e Santumiali nelle zone centro-settentrionale dell’isola. Novembre era Donniassantu per i campidanesi e Santrandria o Mese de sos Mortos per i logudoresi, ma in entrambe le varianti lessicali si fa riferimento alla festività cristiana in onore dei defunti e dei morti. Mes’e Idas, Mes’e Paschixedda (Natale in campidanese è Paschixedda) o le più recenti varianti Nadali, Nadabi, Nadale sono le forme più frequenti in luogo del December latino. Si rifanno invece al calendario giuliano i nomi dei mesi successivi fino a Maggio: Gennàrgiu Gennarxu, Bennalzu, Bennarzu, Ennalzu, da Januarius il mese di Giano; Friasgiu, Friàrgiu, Freàrgiu, Friarxu, Frealzu, Frearzu, da Februarius dedicato alle feste della purificazione, le Februa, appunto; Mratzu, Martzu, Maltu, Martu in onore di Marte; Apribi Abrili, Arbili e Abrile mese della dea etrusca Aprul; Maju, infine, ricalca perfettamente il Majus romano, dedicato alla dea madre italica, simbolo di prosperità e abbondanza. Significativa è invece l’etimologia di Giugno, Mes’e Làmpadasa (Lamparasa), legata enigmaticamente alle luce, quella naturale delle lucciole o quella devozionale dei fuochi di San Giovanni, una delle più importanti feste religiose dell’isola. Il penultimo mese dell’anno, Luglio, è dedicato alla trebbiatura del grano nelle varianti Mes’e Argiolas, Orgiolas, Mes’e Trìulas, mentre in Austu rimane traccia della riforma del senato romano che nell’8 a. C. modificò l’antico sextilis in Augustus, mese intitolato a Ottaviano Augusto.
La settimana.
Se nella terminologia dei mesi di derivazione non latina è palese il ruolo svolto dalla tradizione religiosa e dalle attività legate all’agricoltura, è forse nel lemma che indica settimana che si può cogliere a pieno la relazione tra l’antica società sarda e il mondo del lavoro: sa cida ossia l’accita del latino, da principio indicava solo l’insieme del personale di guardia con turni ripartiti su base settimanale, in seguito, per estensione di significato, passò ad designare il lasso di tempo di sette giorni. I singoli giorni, Lunisi (Luisi), Mattisi (Martisi), Mercuisi (Mrecuisi), Giobia, Cenabara, Sabudu e Dominigu (Domigu), con la sola eccezione del venerdì, ricalcano quelli del calendario gregoriano, mutuato da quello giuliano.
Le Stagioni.
Beranu forti, trigu a corti; friscura in s’Istadi, callentura in s’Ierru; Atonju spiliu, bacarju famiu, Muru de Ierru, forti ke ferru. Veranus, il tempo di Primavera, Aestas, l’estate; Autumnus e Hibernum, l’autunno e l’inverno: la matrice latina anche nelle stagioni – stigmatizzate nei proverbi citati – è chiara, quanto, almeno, la forte propensione della lingua sarda a legare indissolubilmente il tempo al lavoro, alla fatica e alla fede.
EMANUELA KATIA PILLONI