Aver trascorso l’infanzia nella casa dei nonni materni mi ha permesso di usufruire di tutta una serie di spauracchi abbastanza efficaci.
C’era su Carru de Nannai che mi impediva di uscire in cortile quando pioveva e tuonava, c’era sa Mamma de Sa funtana che veniva invocata quando sbirciavo nel pozzo dove mia nonna ancora tirava l’acqua con il secchiello e la catena.
C’era Mommotti, che dava un freno alle mie scorribande nei luoghi bui di quella immensa casa, soprattutto in su magazinu, uno dei miei ambienti preferiti, dove i nonni conservano il vino in fermentazione e io sollevavo i coperchi uno per uno, affascinata dalle bolle viola che borbottavano senza tregua e da quell’odore fortissimo che mai avrebbe abbandonato le mie memorie olfattive.
Tutto mi sembrava prezioso, i vecchi libri scolastici degli zii conservati nel fondo di un armadio, i giocattoli in latta, i barattoli dei semi dell’orto in fila, uno a fianco all’altro.
Mi aggiravo curiosa dentro pomeriggi che sembravano infiniti, fino a quando le ombre iniziavano ad agitarsi nel buio, era Mommotti, pronto a spuntare da un momento all’altro per catturarmi per sempre.
Ma c’era anche uno strano animale che serviva per smorzare i più svariati capricci. “Guarda lì!– diceva la nonna indicando la legnaia- lo vedi su pisittu mabosu?”
Mabosu, non sapevo cosa significasse, il dialetto di mia nonna aveva fatto troppi passaggi, su e giù tra Barigadu, Marmilla e Campidano, non capivo tutte le parole.
Così nella mia testa di bambina, questo strano gatto era associato a qualcosa di malvagio, la cui sola vista poteva causare un terribile spavento.
L’aspetto più tremendo era che mentre di tutti gli altri mostri conoscevo il loro talento specifico, e di conseguenza potevo evitarli stando lontano da certe situazioni, di quel gatto malvagio non sapevo nulla, era potenzialmente in grado di assalirmi ovunque e chissà cosa poteva farmi.
Così stavo lontano dalla legnaia e dalla scala di ferro che il nonno usava per sistemare le fascine, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quella sinistra presenza felina che mi osserva sempre nascosto dietro i mattoni e i tronchetti più grossi.
Viveva lì in mezzo, ne ero certa. Un giorno ho giurato di averlo visto, o forse era solo la mia immaginazione fervida che non faceva differenza tra realtà e finzione.
Fatto sta che su pisittu mabosu rimase nella mia mente per trent’anni.
Cercai e ricercai, nessun manuale, libro, ricerca etnografica riportava l’esistenza di una creatura fantastica simile in Sardegna.
C’erano streghe, fate, demoni, spiriti della natura legati agli elementi, c’era il diavolo con le sue mille sembianze da prestigiatore, ora capra ora vecchio zoppo con il bastone, c’era qualche folletto custode de su iscusorgiu.
C’erano le streghe che si trasformavano in gatti, ma era la magia di una notte e poi riprendevano sembianze umane. Gatti no, gatti zero. I gatti non facevano paura, o forse lo facevano solo a casa mia?
Mi appassionai al folklore nordico e scoprii il gatto di Yule, una specie di felino gigantesco che divora le persone che non hanno ricevuto in dono abiti nuovi a Natale.
Jólakötturinn lo chiamano in Islanda. No, non ci siamo, non assomigliava per nulla al mio pisittu minaccioso. Decisi di partire dalla radice della questione e di affrontarla con la diretta interessata: mia nonna, ormai ultranovantenne. Approfittai di un momento in cui eravamo da sole per chiederle: “Nonna te lo ricordi su pisittu mabosu?”
“Mabosu?” Mi fa lei.
“Si nonna, lo chiamavi così”
“Non era mabosu, forse era miabosu”
“Si ma cosa vuol dire nonna?”
“Miabosu nel senso che miagolava, miao miao miao prrrr prrr”
La nonna mi fa il verso, mi sta prendendo in giro.
Non esisteva nessun gatto malvagio forse, ma di sicuro la sua profonda convinzione in un mondo soprannaturale che seppur non visibile poteva influenzare la nostra vita stravolgendola improvvisamente, quella si che bastava a farmi drizzare i capelli!
Valentina Lisci Spina