Quando qualcuno moriva, di vecchiaia di malattia, nei villaggi dell’Interno della Sardegna si seguiva un certo cerimoniale, basato su antiche tradizioni. Specie nei villaggi ad economia pastorale i parenti si preparavano a questo evento. Il moribondo veniva steso su una stuoia, accanto al fuoco e attendeva la morte assistito dai parenti e le donne che solitamente lo accudivano.
Quando il triste evento si verificava i parenti si lamentavano ad alta voce, strillavano, si battevano il petto e si strappavano i capelli. Questa sorta di lamento era detto: tèyu o teu. La parente più stretta accendeva una candela benedetta e con questa faceva il segno della croce di fronte al morto e gli chiudeva le labbra, ciò affinché non gli sfuggissero i segreti di famiglia.
Il cadavere veniva lavato, vestito e composto accanto al focolare, su un tavolo o su delle assi montate come un catafalco coperto da un lenzuolo, detto: bànca de mortos . Secondo un’antica usanza romana, i piedi del morto dovevano essere rivolti verso la porta, sul petto gli ponevano il crocifisso. Una volta che il feretro era composto iniziavano, da parte dei vicini e parenti, le visite di condoglianze. Questa parte del cerimoniale era detto su Krùmpiu o sa bisita.
Le parenti si sedevano o si accoccolavano ai lati del morto o attorno al focolare spento, cioè come si dice nel nuorese; fakere sa riga o ria. La parente più vecchia prendeva il primo posto della fila. Gli uomini indossavano il lungo gabbànu nero e si raggruppavano in fondo o in una stanza attigua.
Coloro che entravano per dare le condoglianze erano vestiti con gli abiti di lutto, baciavano il crocifisso, quello sul petto del morto, e recitavano in modo sommesso un “requiem”, poi le donne facevano gruppo tra di loro e gli uomini altrettanto. In segno di lutto le donne si coprivano la parte inferiore del viso sino al naso con un lembo del loro fazzoletto da testa nero, il gesto è detto attuppare da tuppone, il lembo dello scialle. In Sardegna si dice; tuppa de arbures una macchia inaccessibile.
In alcuni villaggi dell’interno s’intonavano di fronte al morto lamenti funebri in rima detti attitidos che spesso erano recitati drammaticamente dalle lamentatrici prezzolate (attitadoras). S’ attitidu non era come si potrebbe pensare, solo un lamento funebre ma anche un’ incitamento alla vendetta, quando il morto era stato ucciso; in questo caso i lamenti erano selvaggi e terrificanti e un’ indumento del morto macchiato di sangue veniva appeso alla parete (su pindzu).
Il giorno del decesso le famiglie del vicinato avevano il dovere di mandare alla famiglia del morto, il pranzo. Questo era un pranzo di lutto detto: s’ akkunòrtu. La notte che precedeva il funerale alcuni dei parenti dovevano vegliare il morto (billai, billadrozu) e secondo l’usanza prendevano parte al pranzo funebre, seguendo le antiche regole in cui non dovevano mai mancare il pane e il miele e si apparecchiava anche per il morto. Il pasto si consumava accanto al focolare, le porte della casa dovevano rimanere aperte tutta la notte, un lume ardeva sulla soglia.
La sera dopo il seppellimento, i parenti si riunivano per un altro banchetto funebre, in questa occasione in certe zone dell’ Isola, erano d’obbligo le fave e le uova, antico piatto funebre di ispirazione greca, poi sostituito con sa “maccarronada” (maccheroni). Al settimo e nono giorno dalla morte, i familiari distribuivano ai vicini , agli amici e ai poveri; carne, pane, pasta (maccheroni). I pani che si distribuivano erano fatti con una farina particolare e detti “paneddas” o, in altre zone, “kokkas”.
A Bitti, questa distribuzione era detta “imborvita” (involgere) perché i cibi inviati erano coperti con un panno bianco. Il giorno della distribuzione era detto “sa die de s’ imborvita”. In altre zone la terminologia è diversa. Era d’uso fare anche delle elemosine per procacciare la salvezza dell’anima del defunto.
La sera, del nono giorno la famiglia del defunto si riuniva per un altro pasto; i romani la chiamavano”cena novendialis”. Nelle zone pastorali, la vedova quando non si risposava, doveva portare il lutto per tutta la vita. I parenti più prossimi, specie nei casi di morte violenta, trascuravano il loro aspetto esteriore, faccendosi crescere i capelli, le unghie, la barba, sino a che l’omicidio non fosse vendicato. Ogni sera si intonava una nenia funebre, ma più spesso un canto di vendetta. Quando c’era un omicidio sul luogo del luttuoso fatto si erigeva un cippo primitivo, facendo un mucchio di pietre.